Cap. III Pole Pole
Non vorrei cadere nella trappola del
perbenismo o far sfoggio di buonismo, atteggiamenti che a volte macchiano il
cosiddetto volontariato umanitario, nè voglio tradire il lettore e lo spirito
di questo libro, però mi sento di dire che ciò che più mi pesa quando sono in
Africa con l’ APA non è il lavoro in sé, ma è assistere a tanta miseria e così
ampiamente diffusa. Vedere bambini che stentano a crescere perché non hanno
cibo, inevitabilmente mi obbliga a riconsiderare, non senza pudore,
l’abbondanza delle nostre tavole e la nostra vita scandita dalla consacrata
abitudine ad almeno due pasti al giorno. In Kenya mi è capitato di vedere e
curare bambini che non ho più rivisto in seguito, perché stroncati da banali
malattie mal diagnosticate e mal curate o non curate del tutto per mancanza di
mezzi.
Non sono un intellettuale né uno
studioso in grado di fare analisi etico-sociali o politico-economiche sulla
fame e la povertà dell’ Africa, così pure le mie riflessioni potranno apparire
banali, ma ambiscono soltanto a essere comprensibili a tutti e sono comunque
suscettibili di mutamento se vi saranno i presupposti validi.
In passato avevo letto libri o giornali e visto
trasmissioni televisive che riportavano descrizioni e immagini tragiche sui
bambini africani, sulla fame di cui molti di loro soffrono. Ma un conto è
leggere di questi drammi sulla carta scritta, oppure vederli sugli schermi
televisivi, un conto è trovarseli davanti. Come è possibile, nel mondo di oggi,
vedere con i propri occhi bambini dell’ età dei miei figli (africani anche
loro, ma per gioco della sorte adottati in Italia) contendersi con gli animali
i rifiuti alimentari di una fetida discarica , con la scabbia che corrode loro
la pelle e l’ addome gonfio per i vermi, come ho visto nella discaricai di
Kariobangi, a due passi dall’ aeroporto di Nairobi? E questo per non morire di
fame! Oppure bambini affamati che rimangono per ore attaccati ai seni avvizziti
delle loro mamme, nel vano tentativo di succhiare latte che ormai non c’è più.
E che dire dei neonati di poche settimane che muoiono per una banale
tubercolosi o dissenteria, perché già alla nascita portatori del virus dell’
Aids trasmesso dalle proprie madri sieropositive? Basterebbe prevenire l’
infezione neonatale con il farmaco opportuno somministrato alla madre al
momento del parto, se non fosse che la medicina preventiva, come quella
curativa, in Africa è appannaggio di pochi fortunati, perché ha dei costi
insostenibili ai più.
Mi sta bene che nel Vangelo sia scritto che “Il
Regno dei Cieli sarà di questi piccoli”; mi sta bene che per quei bambini di
cui ho visto le sofferenze via sia la certezza, nella fede, che le Porte dei
Cieli siano aperte, ma vorrei che su questa terra a quei bambini si aprissero
almeno le porte del nutrimento. Queste creature avranno pure dei diritti! Una
società che non sa garantire ai propri figli neppure cibo e salute, cosa potrà
produrre se non adulti infelici e arrabbiati con il mondo? Se è vero, come
riferiscono gli organismi internazionali, che il 20% della popolazione mondiale
dispone di più dell’ 80% dei beni della terra, se è realistica la stima di 10
milioni di morti per denutrizione ogni anno, se più di un miliardo di persone
su questa terra è analfabeta, questi numeri non hanno bisogno di commento, ma
penso che il mondo benestante debba rendersi conto che un’ ingiustizia così
macroscopica non può durare nel tempo. E non sarà forse che il crescente
terrorismo, gravido di odio e di rabbia, diretto contro i paesi del benessere
economico esibito e del consumismo senza freni (di cui gli Stati Uniti sono la
guida e l’ emblema), trovi le sue radici anche in questa tragica ingiustizia
planetaria?
Io sono d’ accordo con chi sostiene
che la teoria dell’ affamato terrorista sia fin troppo semplicistica: l’ Africa
è stata ed è tuttora teatro i terribili guerre e genocidi (si pensi soltanto
alla recente guerra Hutu-Tutsi in Rwanda, un genocidio ormai dimenticato che ha
mietuto quasi un milione di vittime, naturalmente sotto gli occhi di una comunità
internazionale passiva), ma per quel che ne so non ha mai esportato terrorismo,
se mai l’ ha subito. Questa teoria non spiegherebbe poi le azioni terroristiche
delle Brigate Rosse, dei kamikaze palestinesi o di tante frange di
fondamentalisti islamici, che nascono fra gente affamata di odio e vendetta,
non certo di pane. Tuttavia credo che anche il terrorismo dilagante rappresenti
una delle forme di ribellione a un iniquo sistema per il quale il ricco diventa
sempre più ricco (quando non sfacciatamente ricco) e il povero sempre più
povero.
Non entro in valutazioni etiche, che lascio ad altri, ma quali
implicazioni avrà il comportamento di società sempre più opulente che vogliono
mantenere ricchezze e privilegi a spese di altre sempre più miserabili,
genericamente ubicate nel sud del mondo? Per quanto tempo ancora gli stati
ricchi potranno garantirsi il loro elevato benessere, disinteressandosi dei
paesi nel bisogno? Oggi, lo vediamo tutti, le nazioni del ricco occidente (e
non solo) hanno perso la loro sicurezza e la certezza di un sistema economico
basato sul consumo in continua espansione comincia a vacillare. Le guerre del
petrolio, il vile attacco alle Torri Gemelle, decine di atroci attentati di
matrice terroristica, scatenano la paura e fanno sorgere il dubbio sul ruolo
che il ricco nord del mondo gioca a livello planetario. L’ integralismo
islamico, sottoprodotto culturale dell’ Islam, si espande a macchia d’olio e
propone valori ideali e comportamentali per noi inaccettabili, ma che comunque
rappresentano l’ antitesi dei nostri modelli di consumo economico.
Un mercato globale in rapida e apparentemente inarrestabile espansione,
soprattutto nel mondo occidentale, dovrebbe tenere in debito conto la
drammatica situazione dei paesi da cui trae le risorse e le materie prime per
sostenere i suoi cicli produttivi. Il processo di globalizzazione, con tutti i
suoi indubbi benefici soprattutto per i paesi ad economia avanzata, quali
effetti ha invece in quei paesi che lo rendono attuabile e quasi mai godono dei
suoi vantaggi? Penso per esempio al Kenya, dove la multinazionale italiana
dell’ ananas, la Del Monte, fra i leader mondiali nella coltivazione e nella
lavorazione dell’ ananas, è sempre al centro di continue polemiche per i bassi
salari e l’ uso di pesticidi pericolosi o alla multinazionale svizzera Nestlè,
che avendo in mano buona parte del mercato del caffè kenyano, impone ai piccoli
produttori locali prezzi lontano dai criteri di equità, almeno così mi
riferiscono. E che dire del Sudan, dove l’ estrazione del petrolio passa
attraverso lo sterminio di antiche tribù che abitano da secoli quelle regioni,
per assecondare gli interessi di compagnie petrolifere canadesi, cinesi,
svedesi? Don Mariano, missionario in Sudan, tempo fa scriveva: “In Europa si
comincerà a fare il pieno alle macchine a prezzo del sangue dei sudanesi”. E
così via gli esempi potrebbero continuare.
Dove ci porterà un imprenditoria selvaggia che obbedisce soltanto alle
leggi del profitto? So che da un lato può suonare egoistico, ma credo che se
noi dei paesi del benessere non rivediamo le nostre attuali regole economiche,
troppo sbilanciate a nostro favore, andrà sempre peggio per i poveri del mondo,
ma alla lunga anche per noi (per soldi non abbiamo forse venduto armi a paesi
poveri che ora ci stanno facendo la guerra con le nostre stesse armi?). E
personalmente guardo con sospetto certe ideologie che mirano a far accettare le
disuguaglianze economico-sociali del nostro mondo come un qualcosa di normale,
ma che in realtà ho l’ impressione vogliano nascondere privilegi economici,
sfruttamento, controllo di una categoria sull’ altra, conflitti di interesse.
Ovviamente noi dell’ APA non ci siamo prefissati l’ irreale obbiettivo
di ribaltare la situazione a favore dei più deboli, con i nostri esigui mezzi
economici e professionali, perché siamo perfettamente consci che l’ aiuto che i
paesi benestanti devono offrire a quelli poveri dell’ Africa sia di non facile
attuazione e dovrebbe essere educativo e culturale (istruzione scolastica,
stabilità politica, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani e della
democrazia….) e non solo sanitario o economico. Semplicemente non possiamo
starcene con le mani in mano ad assistere allo sfacelo di interi popoli e
paesi, di cui abbiamo già conosciuto la miseria e le privazioni.
Al di là del mio credo religioso, penso che per quanto insignificanti,
anche piccole e volontarie azioni di solidarietà di singole persone o di
piccoli gruppi, possano servire, e ancor meglio se non sono di peso per chi le
mette in atto. A meno che si voglia liquidare tutta la questione con un
ineluttabile: “tanto non possiamo fare nulla, tanto quello che facciamo non
serve a niente”, quasi fosse il mio l’ inutile capriccio di un bambino viziato
o il ghiribizzo di un parolaio a corto di idee. Ai miei orecchi questa frase
suona come una pretestuosa impotenza, per mascherare la mancata volontà di
sporcarsi le mani. E’ evidente che se uno vuol cercare un alibi lo può trovare
ovunque e in ogni momento, ma a mio parere queste ingiustizie, anche se
planetarie (voglio ribadire questo concetto perché troppe volte ho vissuto da
vicino la vergogna di queste iniquità), non dovrebbero costituire una comoda
scusante per esimerci da piccole ma concrete azioni di cooperazione e
solidarietà verso chi queste ingiustizie le subisce, a casa nostra come nel sud
del mondo. Ognuno si comporti come crede, altri faranno meglio di noi e non
spetta certo a me nessun azzardo di giudizio sul comportamento altrui, ma si
sappia che quanto andiamo raccontando sul Kenya e sull’ Africa in generale è
scandalosa realtà.
Con gli amici dell’ APA ho visitato regioni dell’
Africa sub-Sahariana estese come mezza Italia popolate da centinaia di migliaia
di persone e conosco certe zone desolate del Kenya (le piane del Taraka, le
aree semidesertiche del nord est, i sobborghi discarica di Nairobi….), dove mi
chiedo come possa tanta gente non dico vivere dignitosamente, ma semplicemente
sopravvivere in condizioni così inumane: alla mancanza di acqua, di cibo, di un
tetto; a decenni di guerra, a malattie per loro incurabili, a macroscopiche
ingiustizie sociali Come possono tante persone vivere in una povertà e
ingiustizia così diffusa, così omogenea, così aberrante? Mancava solo
un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata: l’Aids.
La sindrome da immunodeficienza congenita, come la
chiamiamo noi o ukimwi , come la chiamano loro, già
definita la peste del secondo millennio, è la nuova malattia dei poveri e sta
causando in Africa la più devastante epidemia che l’ umanità ricordi: il numero
dei contagiati è tale, che intere generazioni di africani rischiano di
scomparire. Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove l’ infezione è
relativamente sotto controllo, grazie ai costosissimi farmaci, inavvicinabili
alla stragrande maggioranza degli africani; tant’ e che all’ equatore è nato
questo slogan: “ il nord del mondo produce i farmaci e il sud produce Aids”.
Solo in Kenya, settecento persone al giorno perdono la
vita per questa sindrome e ufficialmente, ma sono dati in difetto, il 15% della
popolazione è al momento sieropostiva, mentre in certi strati sociali (studenti
delle scuole superiori) la positività raggiunge il 60%. Metà degli occupanti le
vergognose baraccopoli di Nairobi è contagiata dal virus e i due terzi dei
decessi negli ospedali del Kenya sono causati da Aids. Un quinto delle donne
kenyane in attesa di un bimbo è sieropositiva e un terzo dei figli di queste
donne lo diventerà a sua volta; evenienza evitabile con i farmaci appropriati
somministrati al momento del parto, come è ho già detto, i cui costi sono però
proibitivi per queste popolazioni. Molti dei bambini sopravvissuti divengono
orfani di genitori deceduti per Aids e sovente vanno a ingrossare le fila di
quell’ esercito di bambini disperati, invisi per la loro criminalità, che
vagano per strada vivendo di espedienti (i boy
street, quarantamila solo a Nairobi). Questi dati, tanto drammatici quanto
reali, sono stati diffusi dal governo kenyota soltanto da poco tempo, perché si
sa che buona parte di questa tragedia è legata a una classe dirigente corrotta,
che ha sempre privato il suo paese di politiche attente allo sviluppo umano e
sociale.
E cosa dire della fame che colpisce ancora più del
trenta per cento della popolazione del Kenya? E’ inutile descriverla; oggi
è.talmente diffusa da essere visibile anche al turista più disattento.
Chi parla mai di queste cose? Quanto sa la gente di
queste ingiustizie? Quali interessi spingono i media e le istituzioni a
ignorarle? Sembra quasi che il mondo ricco neppure sospetti che i beni della
terra abbiano una destinazione così disomogenea e per nulla universale, e
guardi ai poveri e agli affamati come a guastatori della propria festa; quindi
meno se ne parla e meglio è per noi, meno immigrano nei nostri paesi, meglio
stiamo noi.
Apro “La Stampa”, il quotidiano della mia città, di
oggi 10 maggio 2002, per avere qualche notizia sul vertice FAO (l’
organizzazione intergovernativa dell’ ONU per l’ alimentazione e l’
agricoltura) che inizia oggi a Roma. A che cosa servano queste costose e
luccicanti passerelle medianiche, ricche di belle parole e propositi che mi
paiono quasi costantemente destinati al naufragio, proprio non lo so, ma non
voglio entrare in una polemica che non gioverebbe a nessuno e tanto meno ai
ventiquattromila morti al giorno per fame, denunciati dalla stessa FAO. Ritengo
però che la fame nel mondo non si vinca né con l’ indignazione verbale né con i
buoni propositi (vedi megavertice FAO di sei anni fa). Finalmente si parlerà di
fame e povertà in Africa, penso, sfogliando il giornale. Ma che sorpresa! Sette
pagine sono dedicate ai Mondiali di Calcio e due al Campionato di Formula Uno.
Soltanto una pagina e mezzo al summit romano e alla fame nel mondo, per cui l’
Africa primeggia, come testimonia il bell’ articolo (come sempre meritevole di lettura) dell’ inviato speciale de “La
Stampa” Dott. Domenico Quirico, che conosco personalmente e so essere un
esperto di tematiche socio-politiche africane da ormai vent’ anni. C’è anche
una carta geografica raffigurante l’intero mondo, con evidenziati gli stati a
più alta densità di denutriti: metà Africa, fra cui il Kenya, ha più di un
terzo della popolazione che soffre di un “molto alto grado di denutrizione”,
come riporta la fredda didascalia, che più crudamente significa: “questa gente
è strozzata dalla fame, ma non ha di che cibarsi”.
La sproporzione fra le notizie di
sport e le notizie sulla fame del mondo, concentrata prevalentemente nel continente
nero, sono un’indicazione sconcertante di quanto vado sostenendo sin dalle
prime pagine di questo libro: l’ assoluta indifferenza dei media ai problema
Africa e alle sue tragedie. Due parole ancora per sottolineare questo concetto.
Al momento l’ Africa è teatro di decine di
conflitti, la maggior parte dei quali si consumano stranamente in stati ricchi di petrolio, diamanti, uranio,
tantalite, quel prezioso minerale senza il quale non si possono fabbricare i
circuiti elettronici dei telefoni cellulari e dei computer. Non a torto si
parla di “Guerra mondiale d’ Africa”, che sta mettendo in ginocchio stati come
l’ Angola, il Sudan, la Sierra Leone, il Congo, sconvolto da cinque anni di
guerra che ha già mietuto almeno 350 mila morti. La Somalia, confinante col
Kenya, dopo anni e anni di guerre tribali e diventata terra di nessuno,
abbandonata persino dall’ ONU; casualmente
se ne è riparlato un po’ negli ultimi mesi come possibile rifugio di Bin Laden.
Chi vende ai guerriglieri le armi, se non le “ nazioni
bene” dell’ occidente?.Da un lato dimenticano
questi stati, dall’ altro sono in prima linea per vender loro armamenti e
applicare la nota equazione: armi in cambio di soldi, petrolio, minerali
preziosi. Come per l’ Aids: i migliaia, ormai i milioni di morti africani
causati da questa sindrome, non fanno notizia in quell’ occidente che da un
lato importa manodopera dall’ Africa a basso prezzo, dall’ altro rifiuta l’
esportazione laggiù dei farmaci appropriati conto l’ Aids, perché non
verrebbero mai acquistati, dato il loro costo elevato. Non è tutto questo una
vergognosa ingiustizia, per di più muta, una sorta di globalizzazione perversa?
Quasi un secolo fa Gandhi sosteneva che se ciascuno avesse posseduto soltanto
quanto gli occorreva, tutti sarebbero stati soddisfatti. Certamente il suo
asserto, un po’ troppo utopico, voleva solo provocare; ma cosa direbbe Gandhi
oggi?
Per completezza e non per scusante,
va però ricordato che sarebbe ingiusto e riduttivo identificare la
responsabilità di queste vergogne soltanto nella prepotenza e ingordigia degli
stati occidentali, senza tenere in debito conto la disonestà e voracità di
tanta parte della classe politica dei paesi africani, che tollera e fomenta
sistemi sociali sostenuti dall’ illegalità, dalla corruzione, dal clientelismo.
Da questo punto di vista il Kenya, parlo con cognizione di causa, non fa certo
eccezione, basti pensare che l’ organizzazione “Transparency International” lo
classifica come il quinto stato più corrotto al mondo. Nello stesso tempo queste
leadership corrotte si disinteressano dello stato di grave indigenza in cui
versa la stragrande maggioranza della popolazione, incapace di opporsi, per
paura, per ignoranza, per mancanza di mezzi e di maturità politica.
Ancora non va dimenticato che il sottosviluppo, l’
instabilità politica, l’ arretratezza tecnologica e la carenza di
infrastrutture, unite alla rassegnazione tipicamente africana (qualcuno la
chiama indolenza), penalizzano molto la possibilità di aiutare queste
popolazioni. Non è poi così facile dare aiuto a gente che vive (quando non è in
guerra) nell’ ignoranza tecnologica, manca di rete stradale o elettrica, non è
organizzata nel lavoro, non ha una mentalità aperta allo sviluppo e al
risparmio, e per di più soggiace ad una sorta di esasperante fatalismo. E’ su
queste carenze, come pure sulla demoralizzante attitudine a far cattivo uso di
quanto viene donato loro, che bisognerebbe lavorare per poter fornire un aiuto
reale: l’ Africa non potrà mai decollare solo con l’ invio laggiù di cibo, di
denaro e di tecnologia avanzata.
Il nostro lavoro laggiù è tanto, ma per vari motivi
non faticoso, anche perché termina inderogabilmente alle 17, ora di chiusura
degli ambulatori ospedalieri e dispenseriali (nelle pagine più avanti,
spiegherò cosa sono i dispensari). A parte eccezioni, personalmente non ho mai
lavorato più di sei sette ore al giorno, fatti salvi i giorni in cui ho operato
nelle mobile clinic (ne parlerò più
avanti), dove la chiusura della giornata è imposta dal ciclo solare e termina
poco prima al crepuscolo. Alcuni nostri studi sono più affollati, come Embul
Bul e Isiolo, dove il lavoro è davvero soverchiante; in altri l’ affluenza è
molto variabile di anno in anno, in dipendenza anche dal volontariato
presentente, ma soprattutto dalle disponibilità economiche del paziente, in
pratica dall’ esito dei raccolti. Ricordo un anno di terribile siccità a Nkubu,
quando non più di tre quattro persone al giorno accedevano al nostro
ambulatorio. I soldi in quel periodo erano pochi, perché i generi alimentari
erano saliti di prezzo, data la scarsità dei raccolti e non c’era posto per le
cure odontoiatriche: il mal di denti di necessità viene dopo la fame.
La giornata in ambulatorio inizia alle nove del
mattino e come ho detto si protrae fino alle cinque, con un ora di intervallo
per il pasto e mezz’ ora canonica per il tè di metà mattina, quindi un orario
ben ridotto rispetto ai nostri studi.. Soprattutto si lavora senza l’ assillo
degli appuntamenti incalzanti, dei ritardi che si accumulano, delle spese
incombenti che ritmano l’ attività nei nostri ambulatori italiani. Gli orari in
Africa, particolarmente nelle aree rurali , sono comunque quanto di più
aleatorio ci sia, perché i pazienti per lo più non hanno l’ orologio e
cadenzano la loro giornata basandosi sui ritmi solari.
Il loro motto, che ormai ha fatto il giro del mondo,
è una doppia parola africana dalla facile pronuncia anche per noi: “ Pole
pole”. E’ uno dei pochi termini swahili da me conosciuti, che traduce benissimo
il loro modo di vivere e di fare le cose: ” piano piano, con calma, senza
fretta”.
Se c’è un individuo che impersona in tutti i sensi
questo concetto, costui è John Kinyua Kaati, il clinical officer che, insieme a Sister Idah Muthoni, da qualche
anno porta avanti il nostro ambulatorio del Consolata Hospital di Nkubu. Tarchiato, con occhiali spessi che
cadono sul naso, espansivo, sveglio, per non dire furbetto, ha fatto della
calma l’ emblema della sua vita, tant’è che l’ abbiamo soprannominato “il
dentista pole pole”. L’ idea di cedere questo ambulatorio alla controparte
africana era già prevista fin dall’ inizio del progetto, ma sono occorsi
quattro anni prima di formalizzare il passaggio. Anziché funzionare per pochi
mesi all’ anno, la struttura avrebbe potuto così operare tutti i giorni e
questa sembrava la forma più utile e saggia di cooperazione e solidarietà con
l’ Africa, come giustamente voleva l’ associazione medica per cui lavoravamo
anni fa.
In accordo con la matron dell’ ospedale, Sister
Roswitta, avevamo scelto John (così lo chiaman tutti per brevità) fra una rosa
di aspiranti a questo incarico e la decisione a suo tempo non fu facile: c’ era
chi non sapeva lavorare bene, qualcuno a cui piaceva rubacchiare, alcuni con
poca voglia di fare ma con tanta voglia di tirar su quattrini. Fatto sta che
alla fine la scelta cadde su di lui, nonostante la flemma tipicamente africana,
che alla fin fine lo rendeva persino simpatico ai nostri occhi.
Non ho mai
capito dove John avesse lavorato prima di venire a Nkubu, perché alle mie
domande sul suo passato ha sempre risposto molto evasivamente; l’ unica cosa
certa è che aveva esercitato per sette anni su una portaerei americana, dopo
essersi diplomato clinical officer a Nairobi. Ricordo per inciso, che il
clinical officer africano non è un dentista laureato, ma una figura
paragonabile al nostro infermiere professionale e secondo la vigente
legislazione kenyota può lavorare come odontoiatra, purché non attui manovre di
tipo chirurgico.
Ormai son molti anni che l’ ambulatorio di Nkubu è
in mano sua e di Sister Idah. John ha sempre voluto che noi andassimo
periodicamente a dargli una mano, con lo scopo di aggiornarlo sulle nuove
tecniche odontoiatriche; ma è cosa che ultimamente facciamo di rado, poichè la
sua richiesta si traduce spesso in un: “ tu lavori e io sto a guardare”.
Nel complesso però l’ operato dell’ amico John
Kinyua Kaati è più che soddisfacente, come tutti concordano. E’ meticoloso,
preciso, sufficientemente professionale e corretto con i pazienti; infatti
siamo spiaciuti che fra due anni lascerà l’ ospedale per sopraggiunta età
pensionistica: la sua sostituzione rappresenterà sicuramente un problema.
Mi sia consentito a questo punto spendere due parole
riguardo alla diffusa affermazione: “ Gli Africani (o peggio i negri) non hanno
voglia di lavorare”, non per sfatarla, ma per considerarla sotto la giusta
luce. Intanto non si può semplificare o generalizzare il termine africano: l’
Africa è estesa tre volte l’ Europa e ha quasi un miliardo di abitanti. Un
dignitario egiziano ha poco in comune con un pastore Merina del Madagascar,
distante otto ore di aereo e anche solo nel più piccolo Kenya, il figlio di un
ministro che studia alle scuole private dell’ Aga Khan di Nairobi, ben si
distingue da un bambino di strada della medesima città. D’ altro canto, anche
in Europa uno scugnizzo di Napoli, sarà pur simpatico, ma mal si accompagna con
un rampollo di famiglia nobiliare inglese che studia al prestigioso Eaton
College di Londra. Detto questo, non mi sento di confutare in pieno l’ abusato
pregiudizio, perché ha un fondo di verità, con la scusante che clima impervio,
alimentazione insufficiente e non equilibrata, malattie non adeguatamente
curate e periodicamente riacutizzate (malaria, tubercolosi, parassitosi, anemie
varie…), possono ostacolare e reprimere la volontà di lavorare. Io non posseggo
il bilancino, che per di più sarebbe tarato da me stesso, per valutare se gli
africani siano dei grandi lavoratori o no, però non generalizzerei e opererei i
necessari distinguo, al fine di non lasciarsi trascinare da valutazioni
semplicistiche che a volte nascondono un velato razzismo. Conosco bene molti
africani a cui non fanno difetto né la voglia né la capacità di lavorare, ad
esempio James Munene, il clinical officer di Sagana o Fathuma, l’
infermiera che ci assiste nel nostro ambulatorio di Isiolo. Certo
imprenditorialità e organizzazione del lavoro mi sembrano concetti lontani per
quelle popolazioni: ho visto numerose attività lavorative avviate dai coloni
inglesi e tanti progetti di organizzazioni umanitarie, fare una brutta fine una
volta cedute alle maestranze africane. Così pure ho l’ impressione che
carrierismo e attaccamento al lavoro siano termini astratti per la maggior
parte degli africani e il lavoro sia inteso come mezzo di sostentamento e
basta: nessun africano che ho conosciuto io vorrebbe lavorare di più per
aumentare i propri guadagni e poi sperperarli in un consumismo senza freni,
come si vede sempre di più nei cosiddetti paesi del benessere.. Con questo non
intendo dire che a queste persone non interessino i soldi, tutt’ altro!
Mi ha sempre colpito la tranquillità che regna nelle
sale d’ aspetto di un ospedale e di un dispensario africano; anche nei nostri
ambulatori non ho mai visto un paziente lamentarsi vuoi per il dolore, vuoi per
i nostri ritardi o assenze più o meno giustificate. Mai un paziente ha da dire
quando il medico si allontana dall’ ambulatorio per il pasto o rimanda la
visita per un qualsivoglia motivo. Fra questa gente regna un’ accettazione degli
eventi, anche i più sfavorevoli, sconosciuta a noi occidentali ed è sovrana una
dignità che ti incanta, perché quasi scomparsa nei nostri paesi.
Ricordo una sera, a Nkubu , di essere stato chiamato
in sala operatoria per un bambino di sei o sette anni, malamente incidentato,
compresa una frattura della mandibola. Era caduto da un albero la mattina e
solo in tarda serata aveva potuto raggiungere il Consolata Hospital con sua
mamma, in parte a piedi e in parte con mezzi di fortuna. Rimasi in sala
operatoria con il chirurgo di guardia per un paio di ore, fin verso mezzanotte,
cercando di tamponare l’ emorragia e ripristinare la frattura, tentando di
salvare i pochi denti rimasti indenni all’ incidente, ed era questo il motivo
della mia presenza in quel luogo. Con il bambino solo parzialmente sedato,
quindi cosciente, cercai di stabilizzare capi ossei e denti usando del banale
filo di acciaio, l’ unico presidio disponibile in quel momento, ma era
impensabile il trasferimento del paziente presso strutture più attrezzate,
distanti almeno tre ore di au
Il comportamento assolutamente composto del piccolo
paziente, pur potendo vedere quanto il chirurgo ed io facevamo ed ascoltare
quanto dicevamo, mi lasciava esterrefatto. Ma ancor più mi colpì una donna all’
uscita della sala operatoria, apparentemente non più giovane, lievemente curva,
come tante donne kenyote, a causa dei fardelli che portano sulla schiena fin da
giovanissime. Attendeva sola, seduta in dignitosissima compostezza e già l’
avevo notata due ore prima, entrando in sala.. Al mio passaggio si alzò e senza
chiedermi assolutamente nulla, temendo forse di infastidirmi o che non capissi
il suo parlare, strinse la mia mano fra le sue mani callose, accompagnando il
gesto con un:
“
Asante sana, daktari”, “ Tantissime grazie, dottore”. Quella donna era la mamma
del bambino.
Anche davanti alla morte, l’ atteggiamento dell’
africano è di tale compostezza e serena accettazione, che a me occidentale
risulta inesplicabile. Al Consolata Hospital ho visto molti decessi, causati da
vari fattori: mancanza di cure appropriate, inadeguatezza della struttura,
ritardo diagnostico, impossibilità di salvare malati che arrivano già in
situazioni disperate. Ebbene, io non ho mai visto uno solo dei parenti o dei
presenti lamentarsi o esternare atteggiamenti di disperazione o disdetta, salvo
forse per qualche donna.
Nonostante siano già trascorsi dieci
anni, ricordo perfettamente il mio primo giorno di lavoro in questo ospedale,
quando, accanto a Roberta, la nostra assistente italiana, mi venne affiancata
una ragazza indigena, graziosa e minuta, tal Maria Goretti o Mary Goriti, come la chiamavano le
colleghe.
Dal sorriso aperto e cordiale, dalla risata
simpatica e contagiosa, Mary Goriti era una giovane appena maggiorenne, nativa
del vicino Tharaka. Figlia di ragazza madre, presto abbandonata a sé, era
vissuta all’ interno dell’ ospedale di Nkubu e cresciuta con le suore italiane
della Consolata, da cui aveva ricevuto quel nome di sapore conventuale e un po’
desueto di Maria Goretti, a ricordo della santa martire bambina del secolo
scorso. Sveglia e affidabile, aveva presto imparato il lavoro di assistente
dentale, fino ad allora a lei nuovo, e la sua presenza all’ interno dello
studio dentistico era quanto mai indispensabile per tradurci gli innumerevoli
dialetti di quei luoghi, ostacolo per noi frustrante e insormontabile senza il
suo aiuto.
Maria Goretti presentava una vistosa malocclusione
dentaria, in pratica non aveva un dente diritto e questa caratteristica era in
lei molto evidente per la sua abitudine a sorridere di frequente. Un giorno le
dissi che nel mio studio in Italia i suoi denti tutti storti si potevano
riporre perfettamente in linea, con l’ uso di in apparecchio ortodontico. La
settimana dopo la nostra amica se ne tornò con una pasciuta gallina ancora viva
e legata per le zampe, acquistata per me al mercato al costo di un paio di
giornate lavorative.
“Se oggi pomeriggio c’è tempo, mi raddrizzi i denti
come fai nel tuo studio? “, mi chiese gentilmente.
In
verità non le avevo specificato che la cura ortodontica nel suo caso sarebbe
durata non meno di due anni continuativi e lei quindi si era illusa di poter
risolvere tutto in una sola seduta pomeridiana.
Le sue doti di affidabilità e professionalità non
sfuggirono alla suora manager Sister Roswitta (non per niente era un’ ottima
manager), che pensò opportunamente di sollevare Mary Goriti dal ruolo di assistente dentale e di affidarle l’
incarico di impiegata amministrativa, compito che la ragazza assunse di buon
grado, in considerazione del sostanziale aumento di retribuzione. Così, dopo un
triennio di collaborazione, perdemmo una valida collaboratrice di studio che
venne sostituita da Sister Idah Muthoni, una suora dell’ ospedale, originaria
del vicino Meru. Fu comunque un buon acquisto, tanto che si decise di far
venire Sister Idah in Italia due anni, perché acquisisse una competenza
maggiore in campo odontoiatrico.
Oggi è lei che gestisce l’ ambulatorio dentistico di
Nkubu insieme a John. E qui non posso dimenticare e non ringraziare la
Dottoressa Cinzia Poddi di Terni, che ospitò nel suo studio ternano la suora,
impartendo a lei le nozioni odontoiatriche di base, affinché potesse condurre
autonomamente lo studio dell’ APA all’ equatore.. Un bell’ esempio e un
notevole successo di cooperazione e solidarietà odontoiatrica, mi sia
consentito scriverlo.
L’ attività dentale dell’ APA in Africa deve essere
paziente e lenta, “pole pole”, per l’appunto. A volte ciò può risultare poco
gratificante, specie se paragonato al lavoro febbrile e altamente produttivo
dei nostri studi italiani. Ma chi lavora in Kenya come odontoiatra volontario,
deve scrollarsi di dosso l’atteggiamento e il modo di lavorare occidentale;
deve cercare di identificarsi per quanto può con la cultura e le abitudini
ataviche del luogo, con lo stile e il ritmo imposti dalla scarsità di
attrezzature e di mezzi terapeutici. Deve soprattutto rispettare la volontà del
paziente e fare quanto suggeriscono la sua mentalità ed i suoi mezzi: inutile
proporre cure lunghe e complesse a pazienti che vogliono risolvere tutto in una
sola seduta e non sono disposti a ritornare più volte, anche perché forse
dovrebbero ripercorrere dieci o venti chilometri a piedi sotto un sole cocente.
Questo va tenuto in debito conto soprattutto per lo studio di Isiolo, dove non
possiamo garantire un servizio continuativo come negli altri centri e quindi
quando terminiamo una cura dobbiamo essere sicuri che questa sia la più
definitiva possibile, perché magari per sette o otto mesi a Isiolo non tornerà
più nessun dentista. La gente qui vive alla giornata, senza pensare troppo al
domani. A volte noi, con mentalità tipicamente occidentale, vorremmo fare tutto
il possibile per tentare salvare un dente anziché rimuoverlo, senza pensare che
il paziente ha fatto ore e ore di marcia in savana per togliersi
definitivamente il mal di denti, quindi vuole estrarre il dente dolente e
basta, per non rischiare che gli faccia male in seguito.
Riferisco di due episodi esplicativi.
Tempo fa mi trovavo sulle splendide colline di Lewa
Downs per la nostra attività di “odontoiatria mobile (la cosiddetta “mobile
clinic”, di cui parlerò più avanti), in pratica per estrarre denti a
poverissima gente che usa rimuovere i propri denti dolenti con arnesi vari o
con la panga, una sorta di grande coltellaccio per tutti gli usi, dalla difesa
degli animali alla spaccatura della legna, simile al machete sudamericano.
Eravamo ai bordi della sconfinata riserva privata di Lewa Downs, appartenuta in
passato all’ attore americano William Holden e oggi di proprietà dei Craig, una
facoltosa famiglia tedesca che per controllare le proprie mandrie al pascolo e
per spostarsi da una villa all’ altra dell’ immensa tenuta, utilizza un piccolo
aereo Piper: nel Kenya della povertà esistono anche questi bei contrasti.
Lavoravo con l’ amico Pasquale Paone di Varese e toccò il turno di un signore e
di suo figlio adolescente, entrambi con il tipico variopinto mantello Samburu e
ovviamente la lunga lancia. Il padre voleva che estraessimo al figlio un incisivo
superiore perfettamente sano, oltre che di bell’ aspetto e ovviamente sia io
che il mio collega rifiutammo. Quell’
uomo la prese male e rivolgendosi alla nostra infermiera traduttrice le disse
in tono un po’ seccato:
“Riferisca a questi due medici che se non tolgono
loro il dente a mio figlio lo estrarrò io oggi pomeriggio senza anestesia, come
ho già fatto con i suoi fratelli”
“Dovete toglierlo, non potete rifiutare”, ci
consigliò l’ infermiera e dello stesso avviso fu il nostro autista, entrambi
timorosi che il nostro diniego potesse sortire effetti spiacevoli per tutti.
Pasquale ed io ci guardammo esterrefatti: la
richiesta di quel Samburu andava ben oltre il buon senso e contro gli
insegnamenti di Ippocrate che ci avevano insegnato all’ Università (primum non nocere). Ma gli occhi
imploranti di quel ragazzino, che aveva fatto non so quante miglia a piedi per
un‘ estrazione dentaria in anestesia, ci fecero dimenticare i precetti
ippocratici e così un po’ a malincuore estraemmo quel magnifico e bianchissimo
incisivo superiore destro. Tanto chi mai avrebbe saputo nulla di quell’
“infamia”, consumata fra le acacie e gli ippopotami delle alture di Lewa Downs?
E poi, quando tutto fu finito, il sorriso riconoscente di quel ragazzino, anche
se monco di un dente, ci fece subito dimenticare eventuali errori
comportamentali o ripensamenti professionali.
Venni poi a sapere che l’ abitudine ancestrale di
estrarre un dente incisivo frontale era dovuta all’ elevata incidenza di tetano
fra quelle popolazioni, che in effetti spesso mancano di un dente anteriore.
Notoriamente il bacillo del tetano causa una contrattura dei muscoli facciali
(il cosiddetto trisma tetanico), che impedisce al paziente di aprire la bocca e
quindi ingerire cibi solidi e liquidi, se non attraverso la piccola breccia
lasciata dal dente estratto. L’ infezione tetanica da noi è rara, perché
prevenuta con la vaccinazione in età pediatrica e in caso di malaugurata
malattia è quasi sempre curabile con i farmaci appropriati, ma non laggiù dove
manca tutto e quindi vaccino e farmaci antitetanici.
Alla luce di questa conoscenza, era logico che io e
il mio collega rifiutassimo quell’ estrazione dentaria in anestesia? Per la
famiglia e per il ragazzo, che utilità avrebbe avuto il nostro rifiuto, che
contrastava tradizioni secolari e soprattutto avrebbe portato a quasi sicura
morte quel giovane, in caso di infezione da tetano? Il problema non è l’
estrazione di un dente, che per loro non è considerato per nulla un inestetismo
o un danno biologico, ma semmai la mancanza di una prevenzione del tetano con
vaccino e l’ impossibilità di cura del medesimo con farmaci adeguati.
Porto un altro esempio sulla necessità di rispettare
tradizioni e abitudini ataviche di queste popolazioni, che possono vivere, come
recita una delle dieci regole della nostra organizzazione, “anche senza l’
aiuto, per quanto prezioso, del volontario APA”.
L’ anno dopo in cui io e Dino avevamo lasciato l’
organizzazione di cooperazione per la quale lavoravamo, ricevemmo in dono da un
industria dentaria ben mille spazzolini da denti, da distribuire fra gli
scolari della scuola elementare di Nkubu. “Bisogna fare prevenzione
odontoiatrica agli africani, per evitar loro il mal di denti. Meglio prevenire
che curare”, erano le direttive che avevamo ricevuto dalla nostra deludente associazione in molteplici riunioni e consigli
direttivi. Quindi, andate fra gli africani e insegnate loro a lavare i denti
con lo spazzolino. In realtà, se queste sacrosante indicazioni sono valide e
fondamentali nei nostri studi in Italia, anche se spesso disattese (ma questo è
altro problema), sono assolutamente inapplicabili a bambini e ragazzi che da
secoli sono abituati a pulirsi i denti con piccoli rametti di arbusti che
trovano ovunque a costo zero. Che senso ha regalar loro uno spazzolino da denti
se non hanno l’acqua per lavarsi, figuriamoci i soldi per comprarsi un
dentifricio o un nuovo spazzolino, una volta consumato quello avuto in dono?
Così partimmo con una valigia piena di spazzolini e
di scetticismo, con in testa gli insegnamenti impartitici dagli “esperti”. Ma
volete sapere che fine hanno fatto i nostri mille spazzolini da regalare ai
giovani studenti, con dovizia di nozioni sul modo di utilizzarlo? Una parte non
arrivò neppure a loro, perché i poliziotti dell’ aeroporto se ne “regalarono”
un buon quantitativo in cambio del passaggio doganale gratuito; un certo numero
venne venduto dai ragazzi che l’ avevano ricevuto in dono e qualche spazzolino
lo rividi poi in mano alle mamme, probabilmente sequestrato ai figli, per usi
domestici. Un ragazzino persino me lo riportò l’ anno dopo, dicendomi, con
orgoglio e riconoscenza, che lui era stato very
good, perché non aveva ancora neppure aperto quel bellissimo
regalo. E qui la colpa era tutta mia, perchè evidentemente non avevo spiegato
bene a cosa serviva quello strano arnese di plastica colorata. Ciò che più mi
dispiacque, fu scontentare molti ragazzi, perché i nostri spazzolini non erano
sufficienti per tutti e la cosa mi creò non pochi problemi.
Ho raccontato questi due episodi che interessano
strettamente il nostro campo odontoiatrico, ma identici episodi posso riferirli
per altri ambiti e potrei scriverne all’ infinito.
Un missionario comboniano del Kenya, Renato Sesama,
o Padre Kizito come la gente è solita chiamarlo, raccontava che una Ong
occidentale (cioè un’ organizzazione non governativa, istituzioni umanitarie
ben consolidate che ricevono soldi dagli stati a cui appartengono) anni fa
portò avanti In Africa un progetto che consisteva nel costruire stalle per il
bestiame e regalare ai contadini i macchinari per tagliare l’erba, da portare
agli animali ben protetti sotto un solido tetto. La gente si adattò per un po’
di tempo, in quanto riceveva soldi, ma non appena il progetto fu concluso e i
rappresentanti dell’ Ong se ne furono andati, smise il giorno dopo. Da quando
in qua un africano lavora a servizio degli animali, andando a prendergli il
cibo? Nella loro tradizione un simile servilismo è al di là di ogni
immaginazione; non è molto più logico far faticare i quadrupedi, specie sotto
il sole equatoriale? Gli animali, sin dai tempi preistorici , non servono forse
ad alleviare il lavoro e la fatica dell’ uomo?
Ora, non voglio criticar troppo solo per amor di polemica e come APA anche noi
abbiamo fatti tanti errori; né voglio atteggiarmi con saccenteria a grande
esperto di aiuti umanitari, un campo complessissimo, dove non si finisce mai di
imparare, per tutte le implicazioni che entrano in gioco; ma non possiamo
pensare di aiutare questo popolo in miseria cercando di cambiare le sue
abitudini e le sue tradizioni antichissime, soltanto perché riteniamo che i
nostri modi di pensare e di agire siano i migliori. Dino ed io lo diciamo
sempre, prima a noi stessi e poi a quei volontari che bontà loro vogliono darci
una mano: aiutiamo sicuramente gli africani, ma nel pieno rispetto della loro
cultura e della loro tradizione, con umiltà e sincerità di intenti, senza quel
senso di superiorità e onniscienza che caratterizza certo volontariato
umanitario, seppur in perfetta buona fede.
Per poter dare una mano a questi popoli mi par
necessario innanzitutto conoscerne a fondo i bisogni primari nel loro contesto
storico-geografico e temporale. Non possiamo confondere la realtà con
presuntuose approssimazioni teoriche. Chi non sa che è meglio prevenire il mal
di denti con una corretta igiene orale, piuttosto che curarlo una volta
insorto? Ma andiamo prima a fare un giretto in Africa (quella vera), parliamo
con i missionari di laggiù e poi vediamo se è utile portare uno spazzolino da
denti fra gli studenti di Nkubu, che non hanno neppure l’ acqua per sciacquarsi
la bocca. Vanno benissimo i loro rametti, purché vengano usati. Perché
rifiutare l’ estrazione di un incisivo a un adolescente, se ciò può salvargli
la vita dal tetano? Piuttosto promuoviamo campagne di vaccinazione
antitetanica, come fa l’ “Unicef” o “Medici senza Frontiere”, che di queste
cose se ne intendono, sempre che qualcuno si preoccupi di raggiungere queste
popolazioni e i luoghi dimenticati che abitano.
Una cosa che subito mi colpì lavorando a Nkubu, fu
la richiesta da parte dell’ ospedale di un compenso economico per le
prestazioni da noi erogate al paziente. Come si poteva chiedere soldi a gente
così indigente, che apparentemente non aveva neppure di che mangiare? In fin
dei conti l’ ospedale non aveva tirato fuori un soldo per il nostro ambulatorio
e tanto meno doveva farlo nei riguardi di noi operatori. Mi bastò poco per
capire che così doveva essere e d’ altra parte tutta la sanità in Kenya è a pagamento,
tant’è che molti non vanno negli ospedali pubblici, proprio perché sanno che
non verranno curati se non pagano in anticipo. E lascio immaginare al lettore
le conseguenze.
Venni a conoscenza del fatto che le suore
saggiamente distinguevano i pazienti che potevano pagare la prestazione da chi,
invece, pativa lo stato di indigenza totale, per cui era giusto che venisse
curato gratuitamente. Chiedere quindi un compenso per la cura dentistica a chi
poteva, aveva un doppio significato: primo, di rendere cosciente il paziente
del valore della prestazione da noi effettuata (le cose gratuite spesso non
vengono apprezzate né rispettate) e poi come pagare altrimenti il personale che
lavorava per lo studio, la luce elettrica, il materiale odontoiatrico, una volta
esaurito quello da noi portato dall’Italia? Far pagare la nostra prestazione
non era quindi mancanza di misericordia cristiana, che a quelle suore non fa
certo difetto, ma responsabilizzare l’ utente che deve uscire dal circolo
vizioso dell’ elemosina fine a sè stessa, che addormenta la mente del ricevente
senza aiutarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Mi
sembra giusto a questo punto ringraziare chi dona a noi materiale e
strumentario odontoiatrico. Purtroppo c’è l’ abitudine, in qualche collega, di
disfarsi di prodotti scaduti, di strumenti e apparecchiature non ben
funzionanti o danneggiati dall’ uso, anziché buttarli. Non consideriamo gli
studi dentistici dell’ APA come centri di smaltimento rifiuti. Questo vorrebbe
dire mancar di rispetto verso la gente africana e verso i colleghi, che laggiù
spesso lavorano in condizioni precarie: elevato rischio infettivo, incostante
erogazione di corrente elettrica e di acqua, personale ausiliario non
qualificato, carenza di tecnici in grado di riparare i guasti delle nostre
apparecchiature, difficoltà di comunicazione con il paziente per via della
lingua…
Potrei ora descrivere in
dettaglio alcuni momenti di lavoro vissuti a Nkubu: la dignità commuovente con
cui i nostri pazienti accettano il dolore dentale, unitamente a tutte le altre
avversità; i significativi incontri con pazienti dello studio, ad esempio i
bambini analfabeti (tanti; le scuole costano e i genitori non possono pagare la
retta scolastica), che non conoscendo l’ inglese rispondono sempre yes alle nostre domande, anche quando chiediamo
loro il nome. Oppure narrare di quella donna che fu presa dalle doglie del
parto durante un’ estrazione dentaria e dovette correre in sala operatoria per
il taglio cesareo o di quel ragazzo ventenne impossibilitato ad alimentarsi a
causa di un tumore invasivo alla bocca, che si fece trasportare per duecento
chilometri su un cassone di un autocarro: aveva saputo che al Consolata Hospital un dentista bianco
forse poteva salvargli la vita e fu drammatico riferirle la mia impossibilità
ad intervenire. Ancora potrei raccontare alcuni sprazzi di vita vissuti laggiù,
le ore di svago trascorse con gli amici dell’ APA e del Kenya, i momenti
condivisi con le suore ed il personale dell’ ospedale, momenti fatti di
piacevoli chiacchierate (con opinioni non sempre concordanti) e pasti frugali,
con sapori elementari che restituiscono il gusto della semplicità. Oppure
descrivere le interminabili funzioni religiose, rese quasi magiche dai canti e
dalle danze, espressioni estreme di comunicazione a noi sconosciute, ma molto
care agli africani, e ancora della tristezza e della nostalgia che ci prende
ogni volta che lasciamo il Kenya. Ma preferisco soffermarmi a parlare un po’
degli altri nostri centri di lavoro, facendomi aiutare dai miei amici che
operano da più tempo in queste strutture e possono descrivere meglio la loro
realtà
Oggi,
14 giugno 2002, termino di scrivere questo capitolo. E’ tardi, ma do ancora un’
occhiata a “La Stampa” per qualche commento sul vertice FAO terminato ieri a
Roma, in anticipo sul previsto, per dar modo ai partecipanti di seguire la
partita di calcio mondiale Italia-Messico. Salto le sette pagine dedicate allo
sport e vado all’ ottava pagina, l’ unica che parla del summit romano. Leggo
soli i titoli:
“Finisce
il vertice FAO, impegni ma niente decisioni”. “Purtroppo non è cambiato nulla”.
Un altro ancora: “FAO: un meeting fallimentare
Una
delle poche note positive è l’ azzeramento del debito dell’ Italia con il
Mozambico e va indubbiamente riconosciuto il merito all’ attuale governo
italiano, anche se di fatto l’ annullamento era già stato attuato, perché il
Mozambico non sarebbe mai stato in grado di restituire tutti quei soldi. Per il
resto, esattamente tutto come prima:
stessa litania, medesima retorica e promesse di sempre, quelle del precedente
vertice di sei anni prima, quando si dichiarò e si firmò che gli affamati nel
mondo si sarebbero dimezzati entro il 2015, proposito che oggi la stessa FAO,
senza mezzi termini, dichiara fallito. D’ altra parte non esiste nessuna legge
che obblighi i paesi firmatari a onorare la promessa.
C’ era da scommettere? Ma non importa…,purché
l’ Italia vinca i mondiali di calcio.
Dr.Moiraghi Andrea
Dr.Moiraghi Andrea