giovedì 16 gennaio 2014

Pole Pole 4


                                                Cap. III    Pole Pole

    
            Non vorrei cadere nella trappola del perbenismo o far sfoggio di buonismo, atteggiamenti che a volte macchiano il cosiddetto volontariato umanitario, nè voglio tradire il lettore e lo spirito di questo libro, però mi sento di dire che ciò che più mi pesa quando sono in Africa con l’ APA non è il lavoro in sé, ma è assistere a tanta miseria e così ampiamente diffusa. Vedere bambini che stentano a crescere perché non hanno cibo, inevitabilmente mi obbliga a riconsiderare, non senza pudore, l’abbondanza delle nostre tavole e la nostra vita scandita dalla consacrata abitudine ad almeno due pasti al giorno. In Kenya mi è capitato di vedere e curare bambini che non ho più rivisto in seguito, perché stroncati da banali malattie mal diagnosticate e mal curate o non curate del tutto per mancanza di mezzi.
            Non sono un intellettuale né uno studioso in grado di fare analisi etico-sociali o politico-economiche sulla fame e la povertà dell’ Africa, così pure le mie riflessioni potranno apparire banali, ma ambiscono soltanto a essere comprensibili a tutti e sono comunque suscettibili di mutamento se vi saranno i presupposti validi.
In passato avevo letto libri o giornali e visto trasmissioni televisive che riportavano descrizioni e immagini tragiche sui bambini africani, sulla fame di cui molti di loro soffrono. Ma un conto è leggere di questi drammi sulla carta scritta, oppure vederli sugli schermi televisivi, un conto è trovarseli davanti. Come è possibile, nel mondo di oggi, vedere con i propri occhi bambini dell’ età dei miei figli (africani anche loro, ma per gioco della sorte adottati in Italia) contendersi con gli animali i rifiuti alimentari di una fetida discarica , con la scabbia che corrode loro la pelle e l’ addome gonfio per i vermi, come ho visto nella discaricai di Kariobangi, a due passi dall’ aeroporto di Nairobi? E questo per non morire di fame! Oppure bambini affamati che rimangono per ore attaccati ai seni avvizziti delle loro mamme, nel vano tentativo di succhiare latte che ormai non c’è più. E che dire dei neonati di poche settimane che muoiono per una banale tubercolosi o dissenteria, perché già alla nascita portatori del virus dell’ Aids trasmesso dalle proprie madri sieropositive? Basterebbe prevenire l’ infezione neonatale con il farmaco opportuno somministrato alla madre al momento del parto, se non fosse che la medicina preventiva, come quella curativa, in Africa è appannaggio di pochi fortunati, perché ha dei costi insostenibili ai più.
Mi sta bene che nel Vangelo sia scritto che “Il Regno dei Cieli sarà di questi piccoli”; mi sta bene che per quei bambini di cui ho visto le sofferenze via sia la certezza, nella fede, che le Porte dei Cieli siano aperte, ma vorrei che su questa terra a quei bambini si aprissero almeno le porte del nutrimento. Queste creature avranno pure dei diritti! Una società che non sa garantire ai propri figli neppure cibo e salute, cosa potrà produrre se non adulti infelici e arrabbiati con il mondo? Se è vero, come riferiscono gli organismi internazionali, che il 20% della popolazione mondiale dispone di più dell’ 80% dei beni della terra, se è realistica la stima di 10 milioni di morti per denutrizione ogni anno, se più di un miliardo di persone su questa terra è analfabeta, questi numeri non hanno bisogno di commento, ma penso che il mondo benestante debba rendersi conto che un’ ingiustizia così macroscopica non può durare nel tempo. E non sarà forse che il crescente terrorismo, gravido di odio e di rabbia, diretto contro i paesi del benessere economico esibito e del consumismo senza freni (di cui gli Stati Uniti sono la guida e l’ emblema), trovi le sue radici anche in questa tragica ingiustizia planetaria?
Io sono d’ accordo con chi sostiene che la teoria dell’ affamato terrorista sia fin troppo semplicistica: l’ Africa è stata ed è tuttora teatro i terribili guerre e genocidi (si pensi soltanto alla recente guerra Hutu-Tutsi in Rwanda, un genocidio ormai dimenticato che ha mietuto quasi un milione di vittime, naturalmente sotto gli occhi di una comunità internazionale passiva), ma per quel che ne so non ha mai esportato terrorismo, se mai l’ ha subito. Questa teoria non spiegherebbe poi le azioni terroristiche delle Brigate Rosse, dei kamikaze palestinesi o di tante frange di fondamentalisti islamici, che nascono fra gente affamata di odio e vendetta, non certo di pane. Tuttavia credo che anche il terrorismo dilagante rappresenti una delle forme di ribellione a un iniquo sistema per il quale il ricco diventa sempre più ricco (quando non sfacciatamente ricco) e il povero sempre più povero.
             Non entro in valutazioni etiche, che lascio ad altri, ma quali implicazioni avrà il comportamento di società sempre più opulente che vogliono mantenere ricchezze e privilegi a spese di altre sempre più miserabili, genericamente ubicate nel sud del mondo? Per quanto tempo ancora gli stati ricchi potranno garantirsi il loro elevato benessere, disinteressandosi dei paesi nel bisogno? Oggi, lo vediamo tutti, le nazioni del ricco occidente (e non solo) hanno perso la loro sicurezza e la certezza di un sistema economico basato sul consumo in continua espansione comincia a vacillare. Le guerre del petrolio, il vile attacco alle Torri Gemelle, decine di atroci attentati di matrice terroristica, scatenano la paura e fanno sorgere il dubbio sul ruolo che il ricco nord del mondo gioca a livello planetario. L’ integralismo islamico, sottoprodotto culturale dell’ Islam, si espande a macchia d’olio e propone valori ideali e comportamentali per noi inaccettabili, ma che comunque rappresentano l’ antitesi dei nostri modelli di consumo economico.
              Un mercato globale in rapida e apparentemente inarrestabile espansione, soprattutto nel mondo occidentale, dovrebbe tenere in debito conto la drammatica situazione dei paesi da cui trae le risorse e le materie prime per sostenere i suoi cicli produttivi. Il processo di globalizzazione, con tutti i suoi indubbi benefici soprattutto per i paesi ad economia avanzata, quali effetti ha invece in quei paesi che lo rendono attuabile e quasi mai godono dei suoi vantaggi? Penso per esempio al Kenya, dove la multinazionale italiana dell’ ananas, la Del Monte, fra i leader mondiali nella coltivazione e nella lavorazione dell’ ananas, è sempre al centro di continue polemiche per i bassi salari e l’ uso di pesticidi pericolosi o alla multinazionale svizzera Nestlè, che avendo in mano buona parte del mercato del caffè kenyano, impone ai piccoli produttori locali prezzi lontano dai criteri di equità, almeno così mi riferiscono. E che dire del Sudan, dove l’ estrazione del petrolio passa attraverso lo sterminio di antiche tribù che abitano da secoli quelle regioni, per assecondare gli interessi di compagnie petrolifere canadesi, cinesi, svedesi? Don Mariano, missionario in Sudan, tempo fa scriveva: “In Europa si comincerà a fare il pieno alle macchine a prezzo del sangue dei sudanesi”. E così via gli esempi potrebbero continuare.
              Dove ci porterà un imprenditoria selvaggia che obbedisce soltanto alle leggi del profitto? So che da un lato può suonare egoistico, ma credo che se noi dei paesi del benessere non rivediamo le nostre attuali regole economiche, troppo sbilanciate a nostro favore, andrà sempre peggio per i poveri del mondo, ma alla lunga anche per noi (per soldi non abbiamo forse venduto armi a paesi poveri che ora ci stanno facendo la guerra con le nostre stesse armi?). E personalmente guardo con sospetto certe ideologie che mirano a far accettare le disuguaglianze economico-sociali del nostro mondo come un qualcosa di normale, ma che in realtà ho l’ impressione vogliano nascondere privilegi economici, sfruttamento, controllo di una categoria sull’ altra, conflitti di interesse.
             Ovviamente noi dell’ APA non ci siamo prefissati l’ irreale obbiettivo di ribaltare la situazione a favore dei più deboli, con i nostri esigui mezzi economici e professionali, perché siamo perfettamente consci che l’ aiuto che i paesi benestanti devono offrire a quelli poveri dell’ Africa sia di non facile attuazione e dovrebbe essere educativo e culturale (istruzione scolastica, stabilità politica, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani e della democrazia….) e non solo sanitario o economico. Semplicemente non possiamo starcene con le mani in mano ad assistere allo sfacelo di interi popoli e paesi, di cui abbiamo già conosciuto la miseria e le privazioni.
             Al di là del mio credo religioso, penso che per quanto insignificanti, anche piccole e volontarie azioni di solidarietà di singole persone o di piccoli gruppi, possano servire, e ancor meglio se non sono di peso per chi le mette in atto. A meno che si voglia liquidare tutta la questione con un ineluttabile: “tanto non possiamo fare nulla, tanto quello che facciamo non serve a niente”, quasi fosse il mio l’ inutile capriccio di un bambino viziato o il ghiribizzo di un parolaio a corto di idee. Ai miei orecchi questa frase suona come una pretestuosa impotenza, per mascherare la mancata volontà di sporcarsi le mani. E’ evidente che se uno vuol cercare un alibi lo può trovare ovunque e in ogni momento, ma a mio parere queste ingiustizie, anche se planetarie (voglio ribadire questo concetto perché troppe volte ho vissuto da vicino la vergogna di queste iniquità), non dovrebbero costituire una comoda scusante per esimerci da piccole ma concrete azioni di cooperazione e solidarietà verso chi queste ingiustizie le subisce, a casa nostra come nel sud del mondo. Ognuno si comporti come crede, altri faranno meglio di noi e non spetta certo a me nessun azzardo di giudizio sul comportamento altrui, ma si sappia che quanto andiamo raccontando sul Kenya e sull’ Africa in generale è scandalosa realtà.
Con gli amici dell’ APA ho visitato regioni dell’ Africa sub-Sahariana estese come mezza Italia popolate da centinaia di migliaia di persone e conosco certe zone desolate del Kenya (le piane del Taraka, le aree semidesertiche del nord est, i sobborghi discarica di Nairobi….), dove mi chiedo come possa tanta gente non dico vivere dignitosamente, ma semplicemente sopravvivere in condizioni così inumane: alla mancanza di acqua, di cibo, di un tetto; a decenni di guerra, a malattie per loro incurabili, a macroscopiche ingiustizie sociali Come possono tante persone vivere in una povertà e ingiustizia così diffusa, così omogenea, così aberrante? Mancava solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata: l’Aids.
La sindrome da immunodeficienza congenita, come la chiamiamo noi o  ukimwi , come la chiamano loro, già definita la peste del secondo millennio, è la nuova malattia dei poveri e sta causando in Africa la più devastante epidemia che l’ umanità ricordi: il numero dei contagiati è tale, che intere generazioni di africani rischiano di scomparire. Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove l’ infezione è relativamente sotto controllo, grazie ai costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande maggioranza degli africani; tant’ e che all’ equatore è nato questo slogan: “ il nord del mondo produce i farmaci e il sud produce Aids”.
Solo in Kenya, settecento persone al giorno perdono la vita per questa sindrome e ufficialmente, ma sono dati in difetto, il 15% della popolazione è al momento sieropostiva, mentre in certi strati sociali (studenti delle scuole superiori) la positività raggiunge il 60%. Metà degli occupanti le vergognose baraccopoli di Nairobi è contagiata dal virus e i due terzi dei decessi negli ospedali del Kenya sono causati da Aids. Un quinto delle donne kenyane in attesa di un bimbo è sieropositiva e un terzo dei figli di queste donne lo diventerà a sua volta; evenienza evitabile con i farmaci appropriati somministrati al momento del parto, come è ho già detto, i cui costi sono però proibitivi per queste popolazioni. Molti dei bambini sopravvissuti divengono orfani di genitori deceduti per Aids e sovente vanno a ingrossare le fila di quell’ esercito di bambini disperati, invisi per la loro criminalità, che vagano per strada vivendo di espedienti (i boy street, quarantamila solo a Nairobi). Questi dati, tanto drammatici quanto reali, sono stati diffusi dal governo kenyota soltanto da poco tempo, perché si sa che buona parte di questa tragedia è legata a una classe dirigente corrotta, che ha sempre privato il suo paese di politiche attente allo sviluppo umano e sociale.
E cosa dire della fame che colpisce ancora più del trenta per cento della popolazione del Kenya? E’ inutile descriverla; oggi è.talmente diffusa da essere visibile anche al turista più disattento.

Chi parla mai di queste cose? Quanto sa la gente di queste ingiustizie? Quali interessi spingono i media e le istituzioni a ignorarle? Sembra quasi che il mondo ricco neppure sospetti che i beni della terra abbiano una destinazione così disomogenea e per nulla universale, e guardi ai poveri e agli affamati come a guastatori della propria festa; quindi meno se ne parla e meglio è per noi, meno immigrano nei nostri paesi, meglio stiamo noi.
Apro “La Stampa”, il quotidiano della mia città, di oggi 10 maggio 2002, per avere qualche notizia sul vertice FAO (l’ organizzazione intergovernativa dell’ ONU per l’ alimentazione e l’ agricoltura) che inizia oggi a Roma. A che cosa servano queste costose e luccicanti passerelle medianiche, ricche di belle parole e propositi che mi paiono quasi costantemente destinati al naufragio, proprio non lo so, ma non voglio entrare in una polemica che non gioverebbe a nessuno e tanto meno ai ventiquattromila morti al giorno per fame, denunciati dalla stessa FAO. Ritengo però che la fame nel mondo non si vinca né con l’ indignazione verbale né con i buoni propositi (vedi megavertice FAO di sei anni fa). Finalmente si parlerà di fame e povertà in Africa, penso, sfogliando il giornale. Ma che sorpresa! Sette pagine sono dedicate ai Mondiali di Calcio e due al Campionato di Formula Uno. Soltanto una pagina e mezzo al summit romano e alla fame nel mondo, per cui l’ Africa primeggia, come testimonia il bell’ articolo (come sempre meritevole di lettura) dell’ inviato speciale de “La Stampa” Dott. Domenico Quirico, che conosco personalmente e so essere un esperto di tematiche socio-politiche africane da ormai vent’ anni. C’è anche una carta geografica raffigurante l’intero mondo, con evidenziati gli stati a più alta densità di denutriti: metà Africa, fra cui il Kenya, ha più di un terzo della popolazione che soffre di un “molto alto grado di denutrizione”, come riporta la fredda didascalia, che più crudamente significa: “questa gente è strozzata dalla fame, ma non ha di che cibarsi”.
             La sproporzione fra le notizie di sport e le notizie sulla fame del mondo, concentrata prevalentemente nel continente nero, sono un’indicazione sconcertante di quanto vado sostenendo sin dalle prime pagine di questo libro: l’ assoluta indifferenza dei media ai problema Africa e alle sue tragedie. Due parole ancora per sottolineare questo concetto.
Al momento l’ Africa è teatro di decine di conflitti, la maggior parte dei quali si consumano stranamente in stati ricchi di petrolio, diamanti, uranio, tantalite, quel prezioso minerale senza il quale non si possono fabbricare i circuiti elettronici dei telefoni cellulari e dei computer. Non a torto si parla di “Guerra mondiale d’ Africa”, che sta mettendo in ginocchio stati come l’ Angola, il Sudan, la Sierra Leone, il Congo, sconvolto da cinque anni di guerra che ha già mietuto almeno 350 mila morti. La Somalia, confinante col Kenya, dopo anni e anni di guerre tribali e diventata terra di nessuno, abbandonata persino dall’ ONU; casualmente se ne è riparlato un po’ negli ultimi mesi come possibile rifugio di Bin Laden.
Chi vende ai guerriglieri le armi, se non le “ nazioni bene” dell’ occidente?.Da un lato dimenticano questi stati, dall’ altro sono in prima linea per vender loro armamenti e applicare la nota equazione: armi in cambio di soldi, petrolio, minerali preziosi. Come per l’ Aids: i migliaia, ormai i milioni di morti africani causati da questa sindrome, non fanno notizia in quell’ occidente che da un lato importa manodopera dall’ Africa a basso prezzo, dall’ altro rifiuta l’ esportazione laggiù dei farmaci appropriati conto l’ Aids, perché non verrebbero mai acquistati, dato il loro costo elevato. Non è tutto questo una vergognosa ingiustizia, per di più muta, una sorta di globalizzazione perversa? Quasi un secolo fa Gandhi sosteneva che se ciascuno avesse posseduto soltanto quanto gli occorreva, tutti sarebbero stati soddisfatti. Certamente il suo asserto, un po’ troppo utopico, voleva solo provocare; ma cosa direbbe Gandhi oggi?
            Per completezza e non per scusante, va però ricordato che sarebbe ingiusto e riduttivo identificare la responsabilità di queste vergogne soltanto nella prepotenza e ingordigia degli stati occidentali, senza tenere in debito conto la disonestà e voracità di tanta parte della classe politica dei paesi africani, che tollera e fomenta sistemi sociali sostenuti dall’ illegalità, dalla corruzione, dal clientelismo. Da questo punto di vista il Kenya, parlo con cognizione di causa, non fa certo eccezione, basti pensare che l’ organizzazione “Transparency International” lo classifica come il quinto stato più corrotto al mondo. Nello stesso tempo queste leadership corrotte si disinteressano dello stato di grave indigenza in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione, incapace di opporsi, per paura, per ignoranza, per mancanza di mezzi e di maturità politica.
Ancora non va dimenticato che il sottosviluppo, l’ instabilità politica, l’ arretratezza tecnologica e la carenza di infrastrutture, unite alla rassegnazione tipicamente africana (qualcuno la chiama indolenza), penalizzano molto la possibilità di aiutare queste popolazioni. Non è poi così facile dare aiuto a gente che vive (quando non è in guerra) nell’ ignoranza tecnologica, manca di rete stradale o elettrica, non è organizzata nel lavoro, non ha una mentalità aperta allo sviluppo e al risparmio, e per di più soggiace ad una sorta di esasperante fatalismo. E’ su queste carenze, come pure sulla demoralizzante attitudine a far cattivo uso di quanto viene donato loro, che bisognerebbe lavorare per poter fornire un aiuto reale: l’ Africa non potrà mai decollare solo con l’ invio laggiù di cibo, di denaro e di tecnologia avanzata.

Il nostro lavoro laggiù è tanto, ma per vari motivi non faticoso, anche perché termina inderogabilmente alle 17, ora di chiusura degli ambulatori ospedalieri e dispenseriali (nelle pagine più avanti, spiegherò cosa sono i dispensari). A parte eccezioni, personalmente non ho mai lavorato più di sei sette ore al giorno, fatti salvi i giorni in cui ho operato nelle mobile clinic (ne parlerò più avanti), dove la chiusura della giornata è imposta dal ciclo solare e termina poco prima al crepuscolo. Alcuni nostri studi sono più affollati, come Embul Bul e Isiolo, dove il lavoro è davvero soverchiante; in altri l’ affluenza è molto variabile di anno in anno, in dipendenza anche dal volontariato presentente, ma soprattutto dalle disponibilità economiche del paziente, in pratica dall’ esito dei raccolti. Ricordo un anno di terribile siccità a Nkubu, quando non più di tre quattro persone al giorno accedevano al nostro ambulatorio. I soldi in quel periodo erano pochi, perché i generi alimentari erano saliti di prezzo, data la scarsità dei raccolti e non c’era posto per le cure odontoiatriche: il mal di denti di necessità viene dopo la fame.
La giornata in ambulatorio inizia alle nove del mattino e come ho detto si protrae fino alle cinque, con un ora di intervallo per il pasto e mezz’ ora canonica per il tè di metà mattina, quindi un orario ben ridotto rispetto ai nostri studi.. Soprattutto si lavora senza l’ assillo degli appuntamenti incalzanti, dei ritardi che si accumulano, delle spese incombenti che ritmano l’ attività nei nostri ambulatori italiani. Gli orari in Africa, particolarmente nelle aree rurali , sono comunque quanto di più aleatorio ci sia, perché i pazienti per lo più non hanno l’ orologio e cadenzano la loro giornata basandosi sui ritmi solari.

Il loro motto, che ormai ha fatto il giro del mondo, è una doppia parola africana dalla facile pronuncia anche per noi: “ Pole pole”. E’ uno dei pochi termini swahili da me conosciuti, che traduce benissimo il loro modo di vivere e di fare le cose: ” piano piano, con calma, senza fretta”.
Se c’è un individuo che impersona in tutti i sensi questo concetto, costui è John Kinyua Kaati, il clinical officer che, insieme a Sister Idah Muthoni, da qualche anno porta avanti il nostro ambulatorio del Consolata Hospital di Nkubu. Tarchiato, con occhiali spessi che cadono sul naso, espansivo, sveglio, per non dire furbetto, ha fatto della calma l’ emblema della sua vita, tant’è che l’ abbiamo soprannominato “il dentista pole pole”. L’ idea di cedere questo ambulatorio alla controparte africana era già prevista fin dall’ inizio del progetto, ma sono occorsi quattro anni prima di formalizzare il passaggio. Anziché funzionare per pochi mesi all’ anno, la struttura avrebbe potuto così operare tutti i giorni e questa sembrava la forma più utile e saggia di cooperazione e solidarietà con l’ Africa, come giustamente voleva l’ associazione medica per cui lavoravamo anni fa.
In accordo con la matron dell’ ospedale, Sister Roswitta, avevamo scelto John (così lo chiaman tutti per brevità) fra una rosa di aspiranti a questo incarico e la decisione a suo tempo non fu facile: c’ era chi non sapeva lavorare bene, qualcuno a cui piaceva rubacchiare, alcuni con poca voglia di fare ma con tanta voglia di tirar su quattrini. Fatto sta che alla fine la scelta cadde su di lui, nonostante la flemma tipicamente africana, che alla fin fine lo rendeva persino simpatico ai nostri occhi.
 Non ho mai capito dove John avesse lavorato prima di venire a Nkubu, perché alle mie domande sul suo passato ha sempre risposto molto evasivamente; l’ unica cosa certa è che aveva esercitato per sette anni su una portaerei americana, dopo essersi diplomato clinical officer a Nairobi. Ricordo per inciso, che il clinical officer africano non è un dentista laureato, ma una figura paragonabile al nostro infermiere professionale e secondo la vigente legislazione kenyota può lavorare come odontoiatra, purché non attui manovre di tipo chirurgico.
Ormai son molti anni che l’ ambulatorio di Nkubu è in mano sua e di Sister Idah. John ha sempre voluto che noi andassimo periodicamente a dargli una mano, con lo scopo di aggiornarlo sulle nuove tecniche odontoiatriche; ma è cosa che ultimamente facciamo di rado, poichè la sua richiesta si traduce spesso in un: “ tu lavori e io sto a guardare”.
Nel complesso però l’ operato dell’ amico John Kinyua Kaati è più che soddisfacente, come tutti concordano. E’ meticoloso, preciso, sufficientemente professionale e corretto con i pazienti; infatti siamo spiaciuti che fra due anni lascerà l’ ospedale per sopraggiunta età pensionistica: la sua sostituzione rappresenterà sicuramente un problema.
           
Mi sia consentito a questo punto spendere due parole riguardo alla diffusa affermazione: “ Gli Africani (o peggio i negri) non hanno voglia di lavorare”, non per sfatarla, ma per considerarla sotto la giusta luce. Intanto non si può semplificare o generalizzare il termine africano: l’ Africa è estesa tre volte l’ Europa e ha quasi un miliardo di abitanti. Un dignitario egiziano ha poco in comune con un pastore Merina del Madagascar, distante otto ore di aereo e anche solo nel più piccolo Kenya, il figlio di un ministro che studia alle scuole private dell’ Aga Khan di Nairobi, ben si distingue da un bambino di strada della medesima città. D’ altro canto, anche in Europa uno scugnizzo di Napoli, sarà pur simpatico, ma mal si accompagna con un rampollo di famiglia nobiliare inglese che studia al prestigioso Eaton College di Londra. Detto questo, non mi sento di confutare in pieno l’ abusato pregiudizio, perché ha un fondo di verità, con la scusante che clima impervio, alimentazione insufficiente e non equilibrata, malattie non adeguatamente curate e periodicamente riacutizzate (malaria, tubercolosi, parassitosi, anemie varie…), possono ostacolare e reprimere la volontà di lavorare. Io non posseggo il bilancino, che per di più sarebbe tarato da me stesso, per valutare se gli africani siano dei grandi lavoratori o no, però non generalizzerei e opererei i necessari distinguo, al fine di non lasciarsi trascinare da valutazioni semplicistiche che a volte nascondono un velato razzismo. Conosco bene molti africani a cui non fanno difetto né la voglia né la capacità di lavorare, ad esempio James Munene, il clinical officer di Sagana o Fathuma, l’ infermiera che ci assiste nel nostro ambulatorio di Isiolo. Certo imprenditorialità e organizzazione del lavoro mi sembrano concetti lontani per quelle popolazioni: ho visto numerose attività lavorative avviate dai coloni inglesi e tanti progetti di organizzazioni umanitarie, fare una brutta fine una volta cedute alle maestranze africane. Così pure ho l’ impressione che carrierismo e attaccamento al lavoro siano termini astratti per la maggior parte degli africani e il lavoro sia inteso come mezzo di sostentamento e basta: nessun africano che ho conosciuto io vorrebbe lavorare di più per aumentare i propri guadagni e poi sperperarli in un consumismo senza freni, come si vede sempre di più nei cosiddetti paesi del benessere.. Con questo non intendo dire che a queste persone non interessino i soldi, tutt’ altro!

Mi ha sempre colpito la tranquillità che regna nelle sale d’ aspetto di un ospedale e di un dispensario africano; anche nei nostri ambulatori non ho mai visto un paziente lamentarsi vuoi per il dolore, vuoi per i nostri ritardi o assenze più o meno giustificate. Mai un paziente ha da dire quando il medico si allontana dall’ ambulatorio per il pasto o rimanda la visita per un qualsivoglia motivo. Fra questa gente regna un’ accettazione degli eventi, anche i più sfavorevoli, sconosciuta a noi occidentali ed è sovrana una dignità che ti incanta, perché quasi scomparsa nei nostri paesi.
Ricordo una sera, a Nkubu , di essere stato chiamato in sala operatoria per un bambino di sei o sette anni, malamente incidentato, compresa una frattura della mandibola. Era caduto da un albero la mattina e solo in tarda serata aveva potuto raggiungere il Consolata Hospital con sua mamma, in parte a piedi e in parte con mezzi di fortuna. Rimasi in sala operatoria con il chirurgo di guardia per un paio di ore, fin verso mezzanotte, cercando di tamponare l’ emorragia e ripristinare la frattura, tentando di salvare i pochi denti rimasti indenni all’ incidente, ed era questo il motivo della mia presenza in quel luogo. Con il bambino solo parzialmente sedato, quindi cosciente, cercai di stabilizzare capi ossei e denti usando del banale filo di acciaio, l’ unico presidio disponibile in quel momento, ma era impensabile il trasferimento del paziente presso strutture più attrezzate, distanti almeno tre ore di au
Il comportamento assolutamente composto del piccolo paziente, pur potendo vedere quanto il chirurgo ed io facevamo ed ascoltare quanto dicevamo, mi lasciava esterrefatto. Ma ancor più mi colpì una donna all’ uscita della sala operatoria, apparentemente non più giovane, lievemente curva, come tante donne kenyote, a causa dei fardelli che portano sulla schiena fin da giovanissime. Attendeva sola, seduta in dignitosissima compostezza e già l’ avevo notata due ore prima, entrando in sala.. Al mio passaggio si alzò e senza chiedermi assolutamente nulla, temendo forse di infastidirmi o che non capissi il suo parlare, strinse la mia mano fra le sue mani callose, accompagnando il gesto con un:
“ Asante sana, daktari”, “ Tantissime grazie, dottore”. Quella donna era la mamma del bambino.
Anche davanti alla morte, l’ atteggiamento dell’ africano è di tale compostezza e serena accettazione, che a me occidentale risulta inesplicabile. Al Consolata Hospital ho visto molti decessi, causati da vari fattori: mancanza di cure appropriate, inadeguatezza della struttura, ritardo diagnostico, impossibilità di salvare malati che arrivano già in situazioni disperate. Ebbene, io non ho mai visto uno solo dei parenti o dei presenti lamentarsi o esternare atteggiamenti di disperazione o disdetta, salvo forse per qualche donna.

            Nonostante siano già trascorsi dieci anni, ricordo perfettamente il mio primo giorno di lavoro in questo ospedale, quando, accanto a Roberta, la nostra assistente italiana, mi venne affiancata una ragazza indigena, graziosa e minuta, tal Maria Goretti o Mary Goriti, come la chiamavano le colleghe.
Dal sorriso aperto e cordiale, dalla risata simpatica e contagiosa, Mary Goriti era una giovane appena maggiorenne, nativa del vicino Tharaka. Figlia di ragazza madre, presto abbandonata a sé, era vissuta all’ interno dell’ ospedale di Nkubu e cresciuta con le suore italiane della Consolata, da cui aveva ricevuto quel nome di sapore conventuale e un po’ desueto di Maria Goretti, a ricordo della santa martire bambina del secolo scorso. Sveglia e affidabile, aveva presto imparato il lavoro di assistente dentale, fino ad allora a lei nuovo, e la sua presenza all’ interno dello studio dentistico era quanto mai indispensabile per tradurci gli innumerevoli dialetti di quei luoghi, ostacolo per noi frustrante e insormontabile senza il suo aiuto.
Maria Goretti presentava una vistosa malocclusione dentaria, in pratica non aveva un dente diritto e questa caratteristica era in lei molto evidente per la sua abitudine a sorridere di frequente. Un giorno le dissi che nel mio studio in Italia i suoi denti tutti storti si potevano riporre perfettamente in linea, con l’ uso di in apparecchio ortodontico. La settimana dopo la nostra amica se ne tornò con una pasciuta gallina ancora viva e legata per le zampe, acquistata per me al mercato al costo di un paio di giornate lavorative.
“Se oggi pomeriggio c’è tempo, mi raddrizzi i denti come fai nel tuo studio? “, mi chiese gentilmente.
In verità non le avevo specificato che la cura ortodontica nel suo caso sarebbe durata non meno di due anni continuativi e lei quindi si era illusa di poter risolvere tutto in una sola seduta pomeridiana.
Le sue doti di affidabilità e professionalità non sfuggirono alla suora manager Sister Roswitta (non per niente era un’ ottima manager), che pensò opportunamente di sollevare Mary Goriti dal ruolo di assistente dentale e di affidarle l’ incarico di impiegata amministrativa, compito che la ragazza assunse di buon grado, in considerazione del sostanziale aumento di retribuzione. Così, dopo un triennio di collaborazione, perdemmo una valida collaboratrice di studio che venne sostituita da Sister Idah Muthoni, una suora dell’ ospedale, originaria del vicino Meru. Fu comunque un buon acquisto, tanto che si decise di far venire Sister Idah in Italia due anni, perché acquisisse una competenza maggiore in campo odontoiatrico.
Oggi è lei che gestisce l’ ambulatorio dentistico di Nkubu insieme a John. E qui non posso dimenticare e non ringraziare la Dottoressa Cinzia Poddi di Terni, che ospitò nel suo studio ternano la suora, impartendo a lei le nozioni odontoiatriche di base, affinché potesse condurre autonomamente lo studio dell’ APA all’ equatore.. Un bell’ esempio e un notevole successo di cooperazione e solidarietà odontoiatrica, mi sia consentito scriverlo.

L’ attività dentale dell’ APA in Africa deve essere paziente e lenta, “pole pole”, per l’appunto. A volte ciò può risultare poco gratificante, specie se paragonato al lavoro febbrile e altamente produttivo dei nostri studi italiani. Ma chi lavora in Kenya come odontoiatra volontario, deve scrollarsi di dosso l’atteggiamento e il modo di lavorare occidentale; deve cercare di identificarsi per quanto può con la cultura e le abitudini ataviche del luogo, con lo stile e il ritmo imposti dalla scarsità di attrezzature e di mezzi terapeutici. Deve soprattutto rispettare la volontà del paziente e fare quanto suggeriscono la sua mentalità ed i suoi mezzi: inutile proporre cure lunghe e complesse a pazienti che vogliono risolvere tutto in una sola seduta e non sono disposti a ritornare più volte, anche perché forse dovrebbero ripercorrere dieci o venti chilometri a piedi sotto un sole cocente. Questo va tenuto in debito conto soprattutto per lo studio di Isiolo, dove non possiamo garantire un servizio continuativo come negli altri centri e quindi quando terminiamo una cura dobbiamo essere sicuri che questa sia la più definitiva possibile, perché magari per sette o otto mesi a Isiolo non tornerà più nessun dentista. La gente qui vive alla giornata, senza pensare troppo al domani. A volte noi, con mentalità tipicamente occidentale, vorremmo fare tutto il possibile per tentare salvare un dente anziché rimuoverlo, senza pensare che il paziente ha fatto ore e ore di marcia in savana per togliersi definitivamente il mal di denti, quindi vuole estrarre il dente dolente e basta, per non rischiare che gli faccia male in seguito.
Riferisco di due episodi esplicativi.
Tempo fa mi trovavo sulle splendide colline di Lewa Downs per la nostra attività di “odontoiatria mobile (la cosiddetta “mobile clinic”, di cui parlerò più avanti), in pratica per estrarre denti a poverissima gente che usa rimuovere i propri denti dolenti con arnesi vari o con la panga, una sorta di grande coltellaccio per tutti gli usi, dalla difesa degli animali alla spaccatura della legna, simile al machete sudamericano. Eravamo ai bordi della sconfinata riserva privata di Lewa Downs, appartenuta in passato all’ attore americano William Holden e oggi di proprietà dei Craig, una facoltosa famiglia tedesca che per controllare le proprie mandrie al pascolo e per spostarsi da una villa all’ altra dell’ immensa tenuta, utilizza un piccolo aereo Piper: nel Kenya della povertà esistono anche questi bei contrasti. Lavoravo con l’ amico Pasquale Paone di Varese e toccò il turno di un signore e di suo figlio adolescente, entrambi con il tipico variopinto mantello Samburu e ovviamente la lunga lancia. Il padre voleva che estraessimo al figlio un incisivo superiore perfettamente sano, oltre che di bell’ aspetto e ovviamente sia io che il mio collega  rifiutammo. Quell’ uomo la prese male e rivolgendosi alla nostra infermiera traduttrice le disse in tono un po’ seccato:
“Riferisca a questi due medici che se non tolgono loro il dente a mio figlio lo estrarrò io oggi pomeriggio senza anestesia, come ho già fatto con i suoi fratelli”
“Dovete toglierlo, non potete rifiutare”, ci consigliò l’ infermiera e dello stesso avviso fu il nostro autista, entrambi timorosi che il nostro diniego potesse sortire effetti spiacevoli per tutti.
Pasquale ed io ci guardammo esterrefatti: la richiesta di quel Samburu andava ben oltre il buon senso e contro gli insegnamenti di Ippocrate che ci avevano insegnato all’ Università (primum non nocere). Ma gli occhi imploranti di quel ragazzino, che aveva fatto non so quante miglia a piedi per un‘ estrazione dentaria in anestesia, ci fecero dimenticare i precetti ippocratici e così un po’ a malincuore estraemmo quel magnifico e bianchissimo incisivo superiore destro. Tanto chi mai avrebbe saputo nulla di quell’ “infamia”, consumata fra le acacie e gli ippopotami delle alture di Lewa Downs? E poi, quando tutto fu finito, il sorriso riconoscente di quel ragazzino, anche se monco di un dente, ci fece subito dimenticare eventuali errori comportamentali o ripensamenti professionali.
Venni poi a sapere che l’ abitudine ancestrale di estrarre un dente incisivo frontale era dovuta all’ elevata incidenza di tetano fra quelle popolazioni, che in effetti spesso mancano di un dente anteriore. Notoriamente il bacillo del tetano causa una contrattura dei muscoli facciali (il cosiddetto trisma tetanico), che impedisce al paziente di aprire la bocca e quindi ingerire cibi solidi e liquidi, se non attraverso la piccola breccia lasciata dal dente estratto. L’ infezione tetanica da noi è rara, perché prevenuta con la vaccinazione in età pediatrica e in caso di malaugurata malattia è quasi sempre curabile con i farmaci appropriati, ma non laggiù dove manca tutto e quindi vaccino e farmaci antitetanici.
Alla luce di questa conoscenza, era logico che io e il mio collega rifiutassimo quell’ estrazione dentaria in anestesia? Per la famiglia e per il ragazzo, che utilità avrebbe avuto il nostro rifiuto, che contrastava tradizioni secolari e soprattutto avrebbe portato a quasi sicura morte quel giovane, in caso di infezione da tetano? Il problema non è l’ estrazione di un dente, che per loro non è considerato per nulla un inestetismo o un danno biologico, ma semmai la mancanza di una prevenzione del tetano con vaccino e l’ impossibilità di cura del medesimo con farmaci adeguati.
Porto un altro esempio sulla necessità di rispettare tradizioni e abitudini ataviche di queste popolazioni, che possono vivere, come recita una delle dieci regole della nostra organizzazione, “anche senza l’ aiuto, per quanto prezioso, del volontario APA”.
L’ anno dopo in cui io e Dino avevamo lasciato l’ organizzazione di cooperazione per la quale lavoravamo, ricevemmo in dono da un industria dentaria ben mille spazzolini da denti, da distribuire fra gli scolari della scuola elementare di Nkubu. “Bisogna fare prevenzione odontoiatrica agli africani, per evitar loro il mal di denti. Meglio prevenire che curare”, erano le direttive che avevamo ricevuto dalla nostra deludente associazione in molteplici riunioni e consigli direttivi. Quindi, andate fra gli africani e insegnate loro a lavare i denti con lo spazzolino. In realtà, se queste sacrosante indicazioni sono valide e fondamentali nei nostri studi in Italia, anche se spesso disattese (ma questo è altro problema), sono assolutamente inapplicabili a bambini e ragazzi che da secoli sono abituati a pulirsi i denti con piccoli rametti di arbusti che trovano ovunque a costo zero. Che senso ha regalar loro uno spazzolino da denti se non hanno l’acqua per lavarsi, figuriamoci i soldi per comprarsi un dentifricio o un nuovo spazzolino, una volta consumato quello avuto in dono?
Così partimmo con una valigia piena di spazzolini e di scetticismo, con in testa gli insegnamenti impartitici dagli “esperti”. Ma volete sapere che fine hanno fatto i nostri mille spazzolini da regalare ai giovani studenti, con dovizia di nozioni sul modo di utilizzarlo? Una parte non arrivò neppure a loro, perché i poliziotti dell’ aeroporto se ne “regalarono” un buon quantitativo in cambio del passaggio doganale gratuito; un certo numero venne venduto dai ragazzi che l’ avevano ricevuto in dono e qualche spazzolino lo rividi poi in mano alle mamme, probabilmente sequestrato ai figli, per usi domestici. Un ragazzino persino me lo riportò l’ anno dopo, dicendomi, con orgoglio e riconoscenza, che lui era stato very good,  perché non  aveva ancora neppure aperto quel bellissimo regalo. E qui la colpa era tutta mia, perchè evidentemente non avevo spiegato bene a cosa serviva quello strano arnese di plastica colorata. Ciò che più mi dispiacque, fu scontentare molti ragazzi, perché i nostri spazzolini non erano sufficienti per tutti e la cosa mi creò non pochi problemi.
Ho raccontato questi due episodi che interessano strettamente il nostro campo odontoiatrico, ma identici episodi posso riferirli per altri ambiti e potrei scriverne all’ infinito.
Un missionario comboniano del Kenya, Renato Sesama, o Padre Kizito come la gente è solita chiamarlo, raccontava che una Ong occidentale (cioè un’ organizzazione non governativa, istituzioni umanitarie ben consolidate che ricevono soldi dagli stati a cui appartengono) anni fa portò avanti In Africa un progetto che consisteva nel costruire stalle per il bestiame e regalare ai contadini i macchinari per tagliare l’erba, da portare agli animali ben protetti sotto un solido tetto. La gente si adattò per un po’ di tempo, in quanto riceveva soldi, ma non appena il progetto fu concluso e i rappresentanti dell’ Ong se ne furono andati, smise il giorno dopo. Da quando in qua un africano lavora a servizio degli animali, andando a prendergli il cibo? Nella loro tradizione un simile servilismo è al di là di ogni immaginazione; non è molto più logico far faticare i quadrupedi, specie sotto il sole equatoriale? Gli animali, sin dai tempi preistorici , non servono forse ad alleviare il lavoro e la fatica dell’ uomo?
        Ora, non voglio criticar troppo solo per amor di polemica e come APA anche noi abbiamo fatti tanti errori; né voglio atteggiarmi con saccenteria a grande esperto di aiuti umanitari, un campo complessissimo, dove non si finisce mai di imparare, per tutte le implicazioni che entrano in gioco; ma non possiamo pensare di aiutare questo popolo in miseria cercando di cambiare le sue abitudini e le sue tradizioni antichissime, soltanto perché riteniamo che i nostri modi di pensare e di agire siano i migliori. Dino ed io lo diciamo sempre, prima a noi stessi e poi a quei volontari che bontà loro vogliono darci una mano: aiutiamo sicuramente gli africani, ma nel pieno rispetto della loro cultura e della loro tradizione, con umiltà e sincerità di intenti, senza quel senso di superiorità e onniscienza che caratterizza certo volontariato umanitario, seppur in perfetta buona fede.
Per poter dare una mano a questi popoli mi par necessario innanzitutto conoscerne a fondo i bisogni primari nel loro contesto storico-geografico e temporale. Non possiamo confondere la realtà con presuntuose approssimazioni teoriche. Chi non sa che è meglio prevenire il mal di denti con una corretta igiene orale, piuttosto che curarlo una volta insorto? Ma andiamo prima a fare un giretto in Africa (quella vera), parliamo con i missionari di laggiù e poi vediamo se è utile portare uno spazzolino da denti fra gli studenti di Nkubu, che non hanno neppure l’ acqua per sciacquarsi la bocca. Vanno benissimo i loro rametti, purché vengano usati. Perché rifiutare l’ estrazione di un incisivo a un adolescente, se ciò può salvargli la vita dal tetano? Piuttosto promuoviamo campagne di vaccinazione antitetanica, come fa l’ “Unicef” o “Medici senza Frontiere”, che di queste cose se ne intendono, sempre che qualcuno si preoccupi di raggiungere queste popolazioni e i luoghi dimenticati che abitano.
                                                
Una cosa che subito mi colpì lavorando a Nkubu, fu la richiesta da parte dell’ ospedale di un compenso economico per le prestazioni da noi erogate al paziente. Come si poteva chiedere soldi a gente così indigente, che apparentemente non aveva neppure di che mangiare? In fin dei conti l’ ospedale non aveva tirato fuori un soldo per il nostro ambulatorio e tanto meno doveva farlo nei riguardi di noi operatori. Mi bastò poco per capire che così doveva essere e d’ altra parte tutta la sanità in Kenya è a pagamento, tant’è che molti non vanno negli ospedali pubblici, proprio perché sanno che non verranno curati se non pagano in anticipo. E lascio immaginare al lettore le conseguenze.
Venni a conoscenza del fatto che le suore saggiamente distinguevano i pazienti che potevano pagare la prestazione da chi, invece, pativa lo stato di indigenza totale, per cui era giusto che venisse curato gratuitamente. Chiedere quindi un compenso per la cura dentistica a chi poteva, aveva un doppio significato: primo, di rendere cosciente il paziente del valore della prestazione da noi effettuata (le cose gratuite spesso non vengono apprezzate né rispettate) e poi come pagare altrimenti il personale che lavorava per lo studio, la luce elettrica, il materiale odontoiatrico, una volta esaurito quello da noi portato dall’Italia? Far pagare la nostra prestazione non era quindi mancanza di misericordia cristiana, che a quelle suore non fa certo difetto, ma responsabilizzare l’ utente che deve uscire dal circolo vizioso dell’ elemosina fine a sè stessa, che addormenta la mente del ricevente senza aiutarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Mi sembra giusto a questo punto ringraziare chi dona a noi materiale e strumentario odontoiatrico. Purtroppo c’è l’ abitudine, in qualche collega, di disfarsi di prodotti scaduti, di strumenti e apparecchiature non ben funzionanti o danneggiati dall’ uso, anziché buttarli. Non consideriamo gli studi dentistici dell’ APA come centri di smaltimento rifiuti. Questo vorrebbe dire mancar di rispetto verso la gente africana e verso i colleghi, che laggiù spesso lavorano in condizioni precarie: elevato rischio infettivo, incostante erogazione di corrente elettrica e di acqua, personale ausiliario non qualificato, carenza di tecnici in grado di riparare i guasti delle nostre apparecchiature, difficoltà di comunicazione con il paziente per via della lingua…

              Potrei ora descrivere in dettaglio alcuni momenti di lavoro vissuti a Nkubu: la dignità commuovente con cui i nostri pazienti accettano il dolore dentale, unitamente a tutte le altre avversità; i significativi incontri con pazienti dello studio, ad esempio i bambini analfabeti (tanti; le scuole costano e i genitori non possono pagare la retta scolastica), che non conoscendo l’ inglese rispondono sempre yes  alle nostre domande, anche quando chiediamo loro il nome. Oppure narrare di quella donna che fu presa dalle doglie del parto durante un’ estrazione dentaria e dovette correre in sala operatoria per il taglio cesareo o di quel ragazzo ventenne impossibilitato ad alimentarsi a causa di un tumore invasivo alla bocca, che si fece trasportare per duecento chilometri su un cassone di un autocarro: aveva saputo che al Consolata Hospital un dentista bianco forse poteva salvargli la vita e fu drammatico riferirle la mia impossibilità ad intervenire. Ancora potrei raccontare alcuni sprazzi di vita vissuti laggiù, le ore di svago trascorse con gli amici dell’ APA e del Kenya, i momenti condivisi con le suore ed il personale dell’ ospedale, momenti fatti di piacevoli chiacchierate (con opinioni non sempre concordanti) e pasti frugali, con sapori elementari che restituiscono il gusto della semplicità. Oppure descrivere le interminabili funzioni religiose, rese quasi magiche dai canti e dalle danze, espressioni estreme di comunicazione a noi sconosciute, ma molto care agli africani, e ancora della tristezza e della nostalgia che ci prende ogni volta che lasciamo il Kenya. Ma preferisco soffermarmi a parlare un po’ degli altri nostri centri di lavoro, facendomi aiutare dai miei amici che operano da più tempo in queste strutture e possono descrivere meglio la loro realtà

Oggi, 14 giugno 2002, termino di scrivere questo capitolo. E’ tardi, ma do ancora un’ occhiata a “La Stampa” per qualche commento sul vertice FAO terminato ieri a Roma, in anticipo sul previsto, per dar modo ai partecipanti di seguire la partita di calcio mondiale Italia-Messico. Salto le sette pagine dedicate allo sport e vado all’ ottava pagina, l’ unica che parla del summit romano. Leggo soli i titoli:
“Finisce il vertice FAO, impegni ma niente decisioni”. “Purtroppo non è cambiato nulla”. Un altro ancora: “FAO: un meeting fallimentare
Una delle poche note positive è l’ azzeramento del debito dell’ Italia con il Mozambico e va indubbiamente riconosciuto il merito all’ attuale governo italiano, anche se di fatto l’ annullamento era già stato attuato, perché il Mozambico non sarebbe mai stato in grado di restituire tutti quei soldi. Per il resto,  esattamente tutto come prima: stessa litania, medesima retorica e promesse di sempre, quelle del precedente vertice di sei anni prima, quando si dichiarò e si firmò che gli affamati nel mondo si sarebbero dimezzati entro il 2015, proposito che oggi la stessa FAO, senza mezzi termini, dichiara fallito. D’ altra parte non esiste nessuna legge che obblighi i paesi firmatari a onorare la promessa.

 C’ era da scommettere? Ma non importa…,purché l’ Italia vinca i mondiali di calcio.

Dr.Moiraghi Andrea

Pole Pole 3

                                          


                               
                              

                               Cap. II  Nkubu, agosto 1993


Quasi trecento chilometri separano la città di Nairobi dal villaggio di Nkubu, nella contea di Meru, sede del Consolata Hospital, la mia destinazione di lavoro. Sull' aereo, carta geografica e guida del Kenya in mano, avevo studiato attentamente il percorso, visto che di dormire non se ne parlava, con tutto quel baccano che facevano gli enfanfs terribles francesi. Avremmo dovuto percorrere da sud a nord un tratto di quella lunghissima arteria stradale, enfaticamente definita PanAfrica High Way, cioè la superstrada che collega le due estremità dell' Africa. Una specie di Transamazzonica del continente nero, che con i suoi migliaia di chilometri, in paesaggi naturali ed etnografici diversissimi, collega Città del Capo con Il Cairo, attraversando grandi stati come la Zambia, la Tanzania, il Kenya, l'Etiopia. E' praticamente l' unica strada di collegamento fra il sud e il nord del continente, fra il Sudafrica e l’ Egitto. Avrei presto realizzato che di superstrada non si trattava, se non nel nome, dal momento che per cinquecento chilometri attraverso il Kenya non è neppure asfaltata, ma tutta buche e pietre Parlo del lungo tratto di strada che va da Isiolo, nel Kenya centrale, dove abbiamo una nostra sede operativa, fino a Moyale, al confine con l' Etiopia. Vero è che la Banca Mondiale periodicamente stanzia migliaia e migliaia di dollari per la sua asfaltatura, ma si sa, troppe mani e troppo poco pulite incontrano quei soldi prima di trasformarsi in liscio catrame. Tutto il mondo è paese.
Questa splendida regione del Kenya, dove il tempo sembra essersi fermato, è abitata da popolazioni nomadi, fortemente legate ad antiche tradizioni: Samburu, Borana, Rendille, Turkana… Di origine nilo-camitica, hanno tratti somatici aggraziati e, come i più noti Masai, amano abbellire il proprio corpo con ornamenti variopinti, con collane e bracciali, fatti di perline colorate e rame. Gli uomini portano quasi sempre la lancia, mentre le donne, alte e slanciate, sono semplicemente belle. In questa zona si può incontrare ogni rappresentante della fauna africana: leoni, bufali, zebre, babbuini, antilopi e le magnifiche e nobili giraffe. Qui, uomini animali e natura, dipingono un quadro di una bellezza inimitabile, tanto da farne un paradiso per naturalisti e antropologi, se hanno il coraggio di avventurarsi in queste terre remote. Addentrarsi da queste parti, senza scorta di polizia, è infatti rischioso; l’ ampia regione è infestata da banditi somali, i cosiddetti shifta, ancora più pericolosi dei leoni.
Nonostante questo pericolo, più volte ci siamo addentrati nel territorio per raggiungere l’ ambulatorio dentistico di Merti o le capanne Samburu, per eseguire estrazioni dentarie a pazienti seduti all’ ombra di un albero: intervento tanto richiesto quanto apprezzato. Non so se la Provvidenza o le preghiere delle suore ci abbiano aiutato, ma fin' ora gravi incidenti non ci sono mai capitati; a volte un po' di paura, soprattutto quando si guastano i fuoristrada. 
Lasciata la superstrada, nel nostro viaggio verso Nkubu, dovevamo proseguire sempre in direzione nord, verso il Monte Kenya:, e infatti quel tratto di strada si snoda alle pendici della seconda più alta montagna dell' Africa, per un centinaio di chilometri, in mezzo alla foresta. Secondo i miei calcoli, ci attendevano quattro o cinque ore di viaggio, ma in Africa ci si deve abituare in fretta a fare i conti con l’ imprevisto e questo ha avuto per me risvolti positivi, perché mi riporta all’ essenzialità del vivere e alla consapevolezza dei miei limiti.

Partimmo dal Flora Hostel nel primo pomeriggio dell’ ultimo giorno di luglio. Il caldo ora si faceva sentire, nonostante in Kenya la nostra stagione estiva corrisponda all’ inverno. Elias ci disse che doveva far sosta a un autofficina, per non ricordo quale problema al nostro mezzo e dopo alcuni minuti di viaggio, tra sorpresa e incredulità, mi apparve una distesa agghiacciante di tetti in lamiera zincata e assi di legno, che coprivano piccole baracche squadrate. Era la baraccopoli di Kibera, mi disse il nostro autista, di fronte al mio stupore. Avvicinandoci alla baraccopoli, feci cenno ad Elias di fermarsi un attimo e percorsi qualche decina di metri a piedi, davanti ai miei occhi vedevo un susseguirsi di baracche fumanti, in legno e terra, ammucchiate senza ordine e addossate le une alle altre; non ne scorgevo la fine. Uno spettacolo a me sconosciuto, se non per qualche fugace immagine scorta sui giornali e alla televisione o per sentito dire
Ritorneremo a parlare nel libro di codesti agglomerati di abitazioni, detti anche bidonville o slum, rispettivamente alla francese e all' inglese; sono una vergogna sociale e un concentrato di mali su cui non si può tacere. Le grandi città dell' Africa pullulano di simili squallori e così pure Nairobi, dove le abita la maggior parte della popolazione, più dei due terzi, come ho già detto.
Incuriosito da questa miserabile realtà, mentre Sister Roswitta sonnecchiava, chiesi confidenzialmente ad Elias se poteva attendermi ancora un attimo, cosicché avrei fatto una breve visita a Kibera. Non so se fosse solo curiosità, di cui non dovrei certo vantarmi, ma credo di essere stato mosso da un reale interesse a vedere da vicino quel mondo finora sconosciuto e tentare di capire come a molti fosse accaduto di vivere in un simile squallore. "No possible", mi rispose Elias, tra lo stupito e l'imbarazzato. "Tu devi essere matto; è pericolosissimo. Quel posto è un covo di briganti. Lo sai che persino la polizia ha paura ad entrare là dentro?". Far sosta vicino a uno slum con la nostra auto stracarica di mercanzia, come la slitta di Babbo Natale, voleva proprio dire andarsele a cercare. Lì per lì interpretati il suo rifiuto come un modo sbrigativo per rientrare prima alla missione di Nkubu e per un po' non ci pensai più. Mi tornarono in mente quelle parole, quando tre anni dopo il mio amico Dino Azzalin e altri cinque colleghi violontari, vennero rapiti all' interno della bidonville di Korochoco e sotto la minaccia delle armi spogliati praticamente di tutto. Ne parlarono anche giornali e telegiornali italiani. E certamente allora non avrei immaginato che, dopo molti ripensamenti e titubanze tra me e Dino, quattro anni fa avremmo accettato l'invito di due missionari della Consolata, Padre Tommaso Barbero e Padre Alex Moreschi, a lavorare a Kahawa, un sobborgo di Nairobi,  in uno studio dentistico allestito a fianco della baraccopoli di Soweto. Riparleremo anche di questo.. Tempo fa, alla missione di Nkubu, si passò un’ intera serata a parlare di baraccopoli ed era la prima volta che ne sentivo parlare in dettaglio. Ero a cena con un giovane missionario che lavorava proprio a Kibera, la baraccopoli più grande del Kenya. Fu interessante e toccante sentir raccontare la storia di questa bidonville, una delle più popolose al mondo, con il suo mezzo milione di abitanti o forse più. Sorta negli anni quaranta su un appezzamento donato dal governo inglese ai combattenti per l’ impero britannico, l’ area si era via via estesa e gli assegnatari erano divenuti intraprendenti affittuari, pronti a strozzinare i locatari con canoni insostenibili, a volte soffocando le loro proteste con le armi.

Intanto, lasciato il caos di Nairobi alle spalle, il nostro viaggio proseguiva verso nord in un traffico intenso, ma soprattutto terribilmente spericolato e senza regole. In Kenya i morti per incidenti d’ auto non si contano, mi raccontava Elias e infatti, proprio in quel tratto di strada, due anni dopo perderò un amico trentenne, Luca Maschio, missionario salesiano.
Nel frattempo, l’ abbondante e gustoso pranzo mi aveva conciliato il sonno e mi ero addormentato anch' io, per svegliarmi dopo una mezz’ oretta davanti alle colline della cittadina di Thika, splendide nelle loro sfumature verde scuro sul cielo sempre azzurrissimo. Ritroverò questo toponimo di sapore africano qualche tempo dopo, nel libro ”The Flame Trees of Thika” di Elspeth Huxley, venutomi fra le mani nella foresteria della missione di Tabaka e che cominciai a leggere, senza mai riuscire a terminare. Le ore vespertine in Africa, quando il cielo si illumina di stelle, hanno un fascino tutto loro che ben si addice alla lettura; e infatti si leggono più libri in Kenya d’ estate che in Italia nel resto dell’ anno, se non fosse altro per il fatto che si ha molto più tempo libero.per la lettura.                                                                                                                     
Ancora assonnato e stranito, un po’ per la stanchezza e un po’ per il caldo soffocante all’interno dell’ abitacolo, rimasi sorpreso da quelle distese di colline ben coltivate, pettinate a mo' di fattoria californiana. "Pineapples , Dil Monti , disse Elias, senza che io lo interpellassi.
Mi spiegò che erano le piantagioni di ananas della multinazionale italiana Del Monte e subito mi sentii un po' a casa, pensando alle nostre scatolette e lattine marchiate Dil Monti, tanto gradite a mia figlia. Chilometri e chilometri di collina coltivata ad ananas, interrotte di tanto in tanto da alte torrette, su cui guardie armate scoraggiavano eventuali furti. Era evidente che tutti quei prelibati frutti in aperta collina, erano un boccone troppo attraente per i bambini che gironzolavano nei paraggi e per gli adulti che li avrebbero poi venduti sottobanco, come in effetti fanno volentieri, allungando qualche mancia qua e là.

Il nostro viaggio proseguiva sotto il sole e fra i mille sobbalzi di una carrozzabile stretta e maltenuta. L’ ambiente circostante era completamente cambiato, come capita frequentemente in Kenya, dove nell’ arco di pochi chilometri la natura che ti attornia muta improvvisamente e inaspettatamente. Ora il paesaggio ricordava le nostre pianure vercellesi. Percorrevamo infatti la piana di Mwea, dominata da risaie, grazie a una vasta opera di bonifica che da alcuni anni ha trasformato una zona incolta e infestata dalla malaria, in un terreno fertile e idoneo alla coltivazione del riso. Stanchi, ci fermammo per un tè ristoratore nella cittadina di Embu, in una sorta di pub d'antan del periodo coloniale inglese. Locali simili, locali d'altri tempi, oggi non sempre curati, ma sempre perfettamente english style, erano il luogo di ritrovo delle famiglie coloniali inglesi che popolavano il Kenya prima dell' indipendenza del 1963. Oggi sono semideserti, anche se apprezzati dai pochi turisti, che si aggirano da queste parti. Per la prima volta assaggiai l'ottimo tè locale, ma la vaga pulizia delle stoviglie, a cui imparai presto a non farci caso, non mi consentì di apprezzarne a fondo le decantate qualità. Elias invece bevve soltanto dell’ ottima birra kenyana, senza risparmio. Tanto non pagava lui. Ci avvicinavamo a Nkubu, immergendoci in un nuovo paesaggio, la rigogliosa foresta del Meru, dove i torrenti del vicino monte Kenya vanno ad irrigare le coltivazioni di cotone, tè e caffè della zona. Il paesaggio che ora ci accompagnava, era nell’ insieme molto colorato e denunciava un modello di vita prevalentemente agricolo, assai diverso da quanto avevo visto nella mattinata a Nairobi; all’ apparenza meno povero e certamente più dignitoso. Poche le auto per strada, qualche bicicletta e qua e là carretti trainati a mano o da animali. Ogni tanto capre e mucche attraversavano la strada, mentre ai lati della malconcia carrozzabile, osservavo un andirivieni di tante persone, non certo ben vestite. Fra queste c’ erano molti bambini, in prevalenza scalzi, a fianco o sulle spalle delle loro mamme dai vestiti semplici ma molto variopinti. e tante di loro, trasportavano enormi fascine di legna e sterpaglia. A fianco della strada, altre donne e ragazze vendevano carbone, frutta e verdura di tutti i generi e di buona qualità, disposta su banchetti rudimentali o direttamente per terra. Memore di quanto avevo visto la mattina a in città, cominciavo a rendermi conto che in Kenya tutti vendono e comprano di tutto e ovunque.

Il sole stava completando il suo arco nel cielo, diventato azzurro-argento, quando un rumore ritmico disturbò il nostro viaggio e la nostra auto cominciò a saltellare più del normale.
 "Puncture", sentenziarono quasi in contemporanea Sister Roswitta ed Elias. Avevamo forato una gomma.  Da quelle parti bucare è la norma, tant'è che ogni fuoristrada porta due ruote di scorta sul tetto e il nostro non faceva eccezione. Elias, che mi avevano detto poteva smontare un motore in mezzo alla savana, non si sarebbe certo spaventato di cambiare una ruota! Ma dove era finito il cric? Perso, rubato, dimenticato da qualche parte? Io e la suora non nascondevamo la nostra preoccupazione davanti ad un Elias sorridente come sempre e assolutamente indifferente per  quanto accaduto.
Questo  aplomb africano, davanti a qualsiasi contrattempo o disgrazia anche grave, mi ha sempre lasciato di stucco, ma quanto li aiuta a superare le avversità e quanto aiuterebbe a vivere anche noi! L' antica saggezza africana può ancora insegnarci molto. Però io, che africano non sono, sinceramente ero preoccupato per l' imprevista e indesiderata sosta: trascorrere una notte all' aperto sotto il cielo stellato dell' equatore, poteva anche essere suggestivo, ma il pensiero di un brutto incontro con qualche animale o qualche malintenzionato, me lo rendeva molto meno seducente. Telefoniamo, fu il mio primo pensiero, ma in quei luoghi i telefoni non esistono e di cellulari poi manco a parlarne.   La gente incuriosita, soprattutto i bambini, gioiosi come al solito, si radunava intorno a noi, come le mosche che in gran copia ci ronzavano intorno. E mentre l' incidente sembrava senza risoluzione e la mia inquietudine cresceva, mi venne in mente che all'aeroporto avevo deposto tutto il mio bagaglio su un sacco nero riposto nel baule del fuoristrada. Quel sacco nero sotterrato sotto le mie valigie, non conteneva forse il fatidico cric? Infatti era così. Non bisognava perdere tempo, ma rimuovere tutta la mercanzia sopra i miei bagagli, poi i bagagli e infine ricuperare il prezioso attrezzo. Dispiaciuto e imbarazzato, mi misi al lavoro a fianco di un Elias sempre col sorriso sulle labbra, che credo di me pensasse: "Per essere un bianco e per di più daktari, lo facevo più furbo".
La suora si dette subito da fare e anche questa volta bisognava vederla con quanta rapidità e metodo scaricava sacchi di riso, scatoloni di farmaci, fusti di sapone. Altro che le nostre suore tutto chiesa e convento! Mentre con un occhio seguiva le operazioni di scarico, con l'altro controllava che nessuno dei molti presenti si impadronisse furtivamente della merce e ogni tanto regalava loro qualcosa, per toglierseli dai piedi, data la loro insistenza nel chiedere. Sotto sotto però, quelle bocche poco avvezze al cibo, credo le facessero pena. Lei poveretta era abbastanza preoccupata, perché sapeva che un ritardo prolungato avrebbe messo in apprensione le consorelle dell' ospedale; non c'era quindi tempo da perdere e andava ripetendo:  "Facciamo noi dottore, non si preoccupi, lasci stare…" Cosa dovevo fare, potevo mica stare a guardare, quando ero io la causa di tutto quel trambusto.  La sosta forzata ci portò via più di un' oretta e intanto il sole, che mi appariva grandissimo, si avvicinava alla catena scura di colline. Assistevo al primo dei miei tanti tramonti africani, ma non sto a descriverlo, perchè non renderebbe neppure l'idea ed anzi rischierei di dipingere un' immagine fin troppo stereotipa. Ho però ancora impresso negli occhi l' indimenticabile disco di fuoco su uno sfondo giallo di tutti i gialli e rosso di tutti i rossi. Intravedevo persino sfumature violastre e fucsia, che non avevo mai ravvisato fino ad allora in un tramonto.
 Sempre, dai miei vari soggiorni in Africa, riporterò a casa lo stupore per la tanta miseria, nascosta dietro una natura così fantastica, quasi irreale, difficile da descrivere. Una natura madre e matrigna nello stesso tempo. Non riesco a darmi ragione di tutto questo e potrei quasi capire il cosiddetto stereotipato e abusato mal d ' Africa, se non fosse per il ricordo, che immancabilmente si fa crudele realtà, di tanta umana sofferenza, soprattutto nei più piccoli. Mi sconcerta pensare come si possa continuare ad ammalarsi e morire di fame in Africa, quando un' altra parte di mondo si ammala del problema opposto, cioè per abbondanza di cibo.

Finalmente arrivammo a Nkubu, sotto il tipico stellatissimo cielo equatoriale, mai visto altrove e quindi a me nuovo. Il villaggio, nonostante l’ ora, brulicava ancora di gente che si distingueva con difficoltà, data l’ assenza di luci artificiali. L’ abitato non possedeva illuminazione stradale e un po’ di luce arrivava dagli unici locali pubblici dotati di corrente elettrica: i bar trattoria, il distributore di benzina, la banca, l'ufficio postale e qualche bottega di generi vari. In pratica la visibilità per la strada era affidata unicamente alle grandi stelle e all' immensa luna e lo stesso ospedale non era per nulla illuminato all’ esterno e poco anche all’ interno, come avrei presto verificato. Tutto quel buio intorno, insieme ad un alta cinta di pietre e di filo spinato, con le guardie al cancello, conferivano al Consolata Hospital un aspetto poco allegro e per un verso malinconico. Ma in fin dei conti ero lì per lavorare, riflettei e presto mi sarei abituato al posto.
 In ospedale mi vennero incontro la collega Roberta Lombardi di Milano, assistente dentale presso lo studio milanese del Professor Carlo Guastamacchia ed un suo amico, anche lui volontario, se ben ricordo di nome Stefano, ma l’ ho perso di vista. e così se ne è andato anche il suo nome. Ci eravamo conosciuti in Italia durante i preparativi del lavoro africano e, fortunati loro, avendo trovato un volo più rilassante del mio, mi avevano preceduto di alcuni giorni. Alla vista di Roberta e Stefano mi rinfrancai e con loro nacque subito una piacevole amicizia, sviluppatasi fra lavoro, serate trascorse a chiacchierare, trasferte da una missione all'altra, gite fuori porta..
 Nonostante l'accoglienza calorosa dei miei futuri collaboratori, di un paio di suore libere dagli impegni di reparto e del Dott Kakuja, un chirurgo ugandese in servizio presso ospedale, la stanchezza prese il sopravvento e senza cenare mi ritirai in camera a dormire, per svegliarmi solo dopo un intero giro di orologio. Non poteva essere diversamente, visto che non riposavo praticamente dalla mattina del giorno prima. Ebbi però difficoltà ad addormentarmi: il trambusto del lungo viaggio, il cambio di fuso orario, ma soprattutto quella povertà scioccante mai vista in diretta, non conciliarono subito il sonno.    "Karibuni, Dott. Andrea", benvenuto tra noi, fu l'inaspettato saluto delle consorelle al mio risveglio. Forse non avevo mai visto tante monache tutte insieme, ma la loro calda accoglienza e la loro pronta disponibilità, mi diedero sicurezza e serenità. Capii subito che in quel luogo avrei lavorato a mio agio. Credo, e lo dico senza ombra insincerità e senza retorica, di aver raramente conosciuto persone così squisite. Avevo incontrato molte suore, quando studiavo alle scuole cattoliche, ma mai avevo conosciuto religiose così sorprendentemente energiche, affabili, scherzose. Nei giorni e negli anni a venire, durante il lavoro o i trasferimenti da una missione all'altra, nei lunghi dialoghi con loro e con i miei amici, ebbi modo di conoscerle e apprezzarne la loro bontà d’ animo, pervasa da una fede profonda, vissuta nell’ anonimato della loro professione in uno sperduto ospedale del centr’ Africa. Con stupefacente umanità e spirito di sacrificio, in umiltà e serenità, riuscivano a dare un volto umano a uomini e donne sofferenti, di cui si parla solo nei freddi numeri delle statistiche di organizzazioni internazionali e di convegni medici. La loquacità non faceva certo difetto a nessuna di loro ed era un piacere sentirle raccontare le loro vicende dei tempi passati, quando in Kenya si arrivava solo per nave e andare in missione voleva veramente dire esplorare terre nuove. Argomento di conversazione era spesso Padre Domenico Artero, il mio zio missionario, che ormai anziano e malato, per una curiosa coincidenza proprio in quell’ ospedale aveva trascorso gli ultimi giorni della sua vita, lui che rifuggiva dalla medicina ufficiale e amava curarsi con i presidi tradizionali africani, a base di erbe e intrugli vari. Dal loro racconto ne usciva una figura di sacerdote un po’ originale, dalla tempra vigorosa e dalle idee lungimiranti, che lo portavano a imprese avventurose e persino eroiche per quei tempi
Ricordo ancora benissimo Siter Icylia, missionaria in Africa da quarant' anni; la paciosa Sister Leonella, che diventerà responsabile di tutte le suore missionarie della Consolata in Kenya; Sister Maria Antonia, di Cagliari, appena reduce dalla Somalia in guerra; Sister Giuseppina, loquacissima biellese, che parlava e intanto sferruzzava; Sister Giovanna Pia, piemontese anche lei, dirigeva la sala operatoria; una suora etiope bella e giovane, Sister Ghetenuse, lavorava come ostetrica, e tante altre. Caratteri diversi e ruoli differenti all'interno dell' ospedale, ma un comune denominatore: una sconfinata dedizione al malato e al povero.
 Dopo un' abbondante colazione, mi fecero visitare l'ospedale. Era un costruzione vecchia di trent' anni, a un solo piano, che si estendeva  su una superficie di trenta-quarantamila mila metri quadri tutti cintati, con ampi giardini floreali ben curati e una scuola per allieve infermiere. I reparti erano distribuiti in varie costruzioni, comunicanti tra loro da vialetti in cemento e qua e là erano distribuite alcune casette, dove alloggiavano il personale dell' ospedale e anche noi volontari. Non mancava ovviamente la chiesa. Uno schema di costruzione che avrei rivisto in altri ospedali missionari del Kenya e della Tanzania.
A parte il bel giardino, i cui prati erano tappezzati di malati stesi al sole a riposare, che si sbracciavano per salutarmi, il posto non era un gran che per essere un luogo di cura. Immediatamente mi colpì la vista una folta e rigogliosa siepe, su cui guanti di gomma monouso erano stesi al sole ad asciugare, per poter essere nuovamente riutilizzati. L’ ospedale non poteva permettersi di buttare i guanti destinati a un singolo uso, mi disse Sister Roswitta interpretando il mio stupore ed era costretto a lavarli e riutilizzarli più volte, per economizzare sui costi. Eravamo proprio in un altro mondo! Ma ancora non avevo visto l'interno dell’ ospedale.
Costruzione povera e dimessa, muri scrostati qua e là, pavimentazione in mattonelle consunte o cemento rossastro, quasi trecento letti in ferro arrugginito per circa cinquecento malati (spesso due per letto), vecchie barelle in legno, attrezzature e apparecchiature mediche di altri tempi e soprattutto un odore nauseabondo, quasi ripugnante a cui mi dovetti mio malgrado abituare perché è molta la gente laggiù che trasuda questo odore acre. Qua e là un richiamo alla religione cattolica, grazie alla quale era nato il tutto.
Le suore mi dissero che quello era uno dei migliori ospedali del Kenya e serviva una zona estesa per quasi cento chilometri. Nulla a che vedere con i nostri nosocomi, ma che fosse un bell' ospedale per gli standard africani, lo verificai di persona quando visitai quello statale di Meru. A Nkubu almeno i malati venivano curati dignitosamente; c'erano i farmaci , che spesso mancano negli ospedali governativi, e ora anche il nostro studio dentistico. E poi c'era la dedizione di quelle suore stupende, che probabilmente non si trova nelle lussuosissime ed efficientissime cliniche svizzere, perché non è merce che si può acquistare, pensavo tra me, mentre Sister Roswitta, lei sì svizzera, mi portava in giro per i reparti.  I malati erano tanti e tutti facevano a gara per stringermi la mano, mentre bambini festosi mi si attaccavano da tutte le parti, con l'immancabile litania: “how are you”, oppure "give me a sweet". Chiedevano poi solo una caramella, quelle che i nostri figli non guardano neanche più. Mi facevano sorridere le loro domande: “Perché la tua pelle è bianca? Tu sei andato a scuola? Tu hai una bicicletta, una casa…?”. C’era da ridere ma anche da riflettere e ancora oggi ricordo bene e percepisco l’imbarazzo di quei momenti. In tutti gli ospedali italiani e inglesi dove ho lavorato, non avevo mai visto una simile e così calorosa accoglienza da parte dei degenti.Ma più di tutto mi impressionò il reparto di ostetricia e ginecologia, dove nascevano quattro-cinque mila bambini all' anno: altro che la nostra penuria di neonati! E dovevo considerare che soltanto una minoranza delle nascite in Kenya avvengono in ospedale, perché la maggior parte delle donne non si sogna neppure di partorire in una struttura ospedaliera: non è abitudine e poi gli ospedali sono pochi, quasi sempre lontani e soprattutto costosi. Mi interessava più di tutti questo reparto, per la mia specialità in pediatria e così mi intrattenni un po'. In un angolo vidi un incubatrice, dono della ditta Asmot di Torino, dove anch'io acquisto apparecchiature mediche. Tre neonati pelle e ossa giacevano insieme nell' unica incubatrice disponibile, mentre una seconda era guasta e nessuno era in grado di ripararla o di acquistarne una nuova. In una stanzetta accanto, stavano lavando un bimbo appena nato, sarà pesato nemmeno un paio di chili. Coperto di sangue dalla testa ai piedi, era appena arrivato dalla campagna in braccio alla sua mamma. Stava morendo dissanguato per emorragia ombelicale, che la povera donna nella sua capanna aveva tentato di arrestare, tamponando la ferita aperta con sterco di mucca rinsecchito, l' unica "garza" che la famiglia avesse a disposizione. Ero ammutolito! Anche il cuore più indurito avrebbe stentato a trattenere le lacrime. Inutile dire che il piccolo morì da lì a pochi giorni per setticemia acuta, provocata da quell’ inutile garza piena di batteri.  Mi avvicinai a Sister Ghetenuse, la suora infermiera-ostetrica, intenta a un taglio cesareo, che da quelle parti eseguono le infermiere. Volevo sapere da lei qualcosa di più su quelle realtà finora sconosciute. "Tutto bene" disse lei, con il suo indimenticabile sorriso e il suo italiano stentato. "Questa notte ci sono stati tredici parti e siamo stati very lucky : tutti i neonati sono vivi, almeno finora”.    "Come sarebbe molto fortunati?", le chiesi stupito; forse non avevo ben tradotto il suo  very lucky?
“Sì”, mi spiegò serenamente “è raro che su tredici parti tutti i bambini sopravvivano”. E d'altra parte non mi dovevo stupire; se avessi letto i dati dell' OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), avrei visto che il 14,6 per cento dei neonati in Kenya, cioè uno su sette, muore già al momento del parto. Per non contare il numero di donne che muoiono durante il parto, evenienza ormai rarissima da noi. E questo era ed è il Kenya, che i libri e le guide turistiche descrivono come uno dei più avanzati stati africani; non oso pensare a cosa succede in Congo o in Sierra Leone e a tanti altri stati devastati da anni di guerriglie. Sarei tornato altre volte in questo reparto, un po' per interesse professionale e un po' per rivedere la graziosa Sister Ghetenuse. Quelle partorienti serene e mai lamentose, fra quelle miserrime mura, quelle neomamme che allattavano in allegria, quei modi dolci e garbati delle ostetriche, così lontani dal freddo efficientismo di certi nostri reparti ospedalieri, mi offrivano un messaggio indelebile di umanità, che l'antica sapienza africana continua a trasmettermi.
  "Dottore, Miss Roberta e Stefano la stanno aspettando nell' ambulatorio dentistico", mi avvertì una suora. Mi stavo dimenticando che ero lì per lavorare e non c'era tempo per commuoversi. Lo studio dentistico mi piacque subito. Ordinato, pulito, ben attrezzato, era stato donato dal Lion's Club Torino-Superga, come testimoniava una targhetta metallica e montato l' anno precedente dal collega Dino Azzalin e da John, l'elettricista tuttofare dell' ospedale. Feci subito conoscenza con Maria Goretti, un' infermiera locale, graziosa e molto sveglia, che avrebbe assistito il nostro operato e tradotto per noi i numerosi dialetti locali. Sbirciai anche la sala d'aspetto o meglio il corridoio d'aspetto, dove in paziente attesa sedevano su una panca tre o quattro adulti e un paio di bambini. Mi stupì vedere quelle persone così composte e pazienti. Nessuno si lamentò delle mie due ore di ritardo, neppure i due bambini e raramente avrei visto Africani lamentarsi laggiù per i tempi di attesa, mentre non posso dire altrettanto dei pazienti africani che curo qui a Torino. Ma non era il caso di perdersi in infruttuose riflessioni; bisognava mettersi al lavoro, seppur avessi già imparato che per loro il tempo, anche speso a far nulla, ha una connotazione lontana dalla nostra mentalità efficientista, per la quale occorre sempre e assolutamente fare qualcosa. E anche noi volontari quando siamo in Africa dobbiamo un po’ reinventare e riorganizzare l’ uso del tempo, secondo quest’ ottica, che le prime volte ci appare inconcepibile.  A Nkubu lavorai regolarmente nei primi anni di volontariato in Kenya e poi saltuariamente negli ultimi anni, ovvero fino al momento in cui si decise di cedere il nostro ambulatorio a un dentista locale e a una suora infermiera, sotto la gestione dell’ ospedale e sempre sotto la nostra supervisione, come racconterò più avanti. Lavorando al Consolata Hospital, spostandomi da una missione all’ altra, parlando con la gente e i missionari, leggendo i giornali locali, ho poi avuto modo di conoscere un po’ il paese e i suoi abitanti. Il Kenya, un paese dove si muore ancora molto di fame, di tubercolosi, di malaria e da qualche anno, a complicare il tutto, è arrivata anche l’ Aids (più del 15% della popolazione è ufficialmente sieropositiva e sono stime in difetto). Un luogo in cui studiare è solo un sogno per tanti e ammalarsi un lusso per pochi, perché scuola e sanità sono a pagamento e quindi escluse ai più. Ho imparato sulla mia pelle che viaggiare e parlare troppo liberamente, da queste parti può essere rischioso.  Però il Kenya è anche un paese straordinario per la bellezza grandiosa dei suoi paesaggi ancora intatti, nonostante gli scempi del turismo irresponsabile, e ancor più per la sua gente ricchissima di tradizione, quasi sempre paziente, fantasiosa, incredibilmente ospitale e sinceramente felice anche per il solo fatto di stringerti la mano. E’ quel paese in cui, nonostante i tanti problemi (fame, siccità, analfabetismo, corruzione politica, penuria di mezzi, Aids, lotte tribali... ), sopravvive ancora un’ umanità che ha speranza, ottimismo, apertura alla vita. E poi un’ infanzia sempre sorridente, sebbene viva in condizioni di indigenza sbalorditive ai nostri occhi
Non può essere meta per volontari ingenui o sognatori, poiché la sua povertà non si può neanche immaginare e quando la si incontra per la prima volta si rimane scioccati e risulta inevitabile mettersi in discussione. Un’ indigenza così tangibile non è bella per loro da vivere, ma può risultare problematico anche solo averci a che fare per qualche settimana all’ anno, venendo da altri contesti socio-culturali come il nostro.  Occorre poi liberarsi dall’ idea, fin troppo ingenua ma ancora diffusa, che i poveri dell’ Africa siano tutti bravi e buoni (non si è ancora spento il mito del “buon selvaggio” di Rousseau): soprattutto nelle bidonvilles delle grandi città, qualche volta sono arroganti, oltremodo pretenziosi oppure mentono e rubacchiano, approfittando delle tue buone intenzioni. Però l’ Africa che viviamo noi, quella autentica, lontana dalla mondanità degli alberghi di lusso e dei villaggi turistici artefatti, è un luogo che ti affascina e ti cattura nel profondo, si insinua sotto la pelle e non la dimentichi più.

Tanti avvenimenti curiosi e significativi, moltissimi episodi piacevoli e tristi mi hanno coinvolto durante i vari periodi di lavoro laggiù. Davvero troppi per poterli raccontare in un solo libro; forse saranno il tema di un altro scritto, ma con l’ aiuto dei miei amici ne anticiperò alcuni che mi hanno particolarmente colpito, continuando con un ordine approssimativamente cronologico.

Dr. Moiraghi Andrea